Riassunto - Opera Omnia >>  Dante Alighieri : « La divina commedia » Testo originale    




 

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( Riassunto tratto dal sito Letteratura italiana by Luigi De Bellis )



INFERNO


CANTO I

Nella primavera del 1300, a 35 anni, l’età che egli considera il punto di mezzo della vita umana, Dante inizia il suo viaggio nell’oltretomba. Irretito in una vita peccaminosa (la selva oscura) non riesce a trovare da solo la via del bene. La selva lo riempie di terrore, essendo un chiaro preannuncio della dannazione della sua anima.Egli non saprebbe nemmeno ricostruire le fasi del suo allontanamento dalla vita virtuosa, perché quando cominciò a peccare, signoreggiato ormai dai soli istinti, privo di luce intellettuale (pieno di sonno), non aveva più la possibilità di discernere il bene dal male.Quando Dante, all’uscita dalla selva, vede la sommità del colle (simbolo della faticosa ascesa verso il bene, dell’espiazione, della purificazione) illuminata dai raggi del sole (simbolo della Grazia), comincia a sentirsi rinfrancato, come un naufrago sfuggito ai marosi e approdato, ancora incredulo della propria salvezza, alla riva. Inizia l’ascesa del colle. Ma tre belve: (allegorie di tre peccati specifici - la lussuria, la superbia, l’avarizia - o, secondo altri, delle tre categorie aristoteliche del peccato - la malizia, la sfrenata bestialità e l’incontinenza -) lo ostacolano nel suo procedere, così che egli alla fine dispera di poter raggiungere la vetta ed è sospinto nuovamente verso la valle della perdizione. A questo punto gli appare l’ombra di Virgilio (simbolo della ragione umana, della filosofia) il quale gli annuncia che, se vorrà approdare alla meta agognata dovrà seguire un altro percorso, visitando successivamente, sotto la sua guida, il regno dei dannati e quello delle anime purganti. Perché poi egli possa avere diretta conoscenza del regno degli eletti, Virgilio dovrà affidarlo alla guida di Beatrice (simbolo della fede, della teologia).

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CANTO II

Dante, uscito dalla selva del peccato, aveva iniziato l’ascesa del colle all’alba. Al tramonto dello stesso giorno egli si sente assalito da dubbi: per quale suo merito particolare è stato prescelto a visitare da vivo il regno dei morti? Due soli altri esseri viventi erano scesi nell’oltretomba in carne ed ossa: Enea e San Paolo. Ma essi erano stati destinati da Dio a porre in terra le fondamenta della società umana, rispettivamente nell’ordine temporale e in quello spirituale: il primo in quanto capostipite dei Romani, il secondo in quanto propagatore ed organizzatore del Cristianesimo.Per dissipare queste perplessità Virgilio gli spiega i motivi che lo hanno indotto a venire in suo soccorso. Tre dorme benedette hanno avuto compassione di Dante in cielo: la Vergine Maria ha raccomandato la salvezza del Poeta a Lucia, la quale a sua volta ha esortato Beatrice a sottrarlo al mortale pericolo in cui si trovava. Le accorate parole e la sovrumana bellezza della beata, discesa ad implorarlo, hanno reso il poeta latino impaziente di obbedirle.Al nome della donna amata in gioventù Dante si rianima, non diversamente dai fiori all’alba, e, senza più esitazioni, segue Virgilio nel difficile cammino verso la porta dell’inferno.

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CANTO III

Sulla porta dell’interno un’epigrafe promette, a chi varcherà la soglia, disperazione e dolori eterni, ma Virgilio invita Dante a deporre ogni forma di timore e ogni perplessità; poi, presolo per mano, con volto rassicurante, lo fa entrare. Nel buio profondo il Poeta è dapprima colpito da un orribile clamore di voci, poi intravede un numero sterminato di anime che instancabilmente corrono dietro un vessillo: sono le anime degli ignavi.Insieme ad esse si trovano anche quegli angeli che si erano dichiarati neutrali quando Lucifero insorse contro Dio. La pena degli ignavi è avvilente, spregevole: mosconi e vespe li pungono a sangue e il sangue è succhiato ai loro piedi da vermi ripugnanti.Nella turba anonima Dante riconosce colui che, per pusillanimità, rinunciò alla cattedra di Pietro per la quale era stato prescelto (forse Celestino V). Proseguendo nel loro cammino i due poeti giungono sulla riva del fiume Acheronte, dove si raccolgono tutte le anime dei peccatori in attesa di essere traghettate sull’ altra sponda da Caronte. Il nocchiero svolge il suo compito senza parlare: ordina alle anime di salire sulla barca facendo loro dei cenni, e, se qualcuna mostra di voler indugiare, la percuote col remo. Caronte, accortosi che Dante è ancora in vita, lo ammonisce a tornarsene sui suoi passi, ma Virgilio lo costringe al silenzio rivelandogli che il viaggio del suo discepolo si compie per volere del cielo. Improvvisamente la terra trema, e, mentre un lampo di luce rossa squarcia le tenebre, Dante perde i sensi.

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CANTO IV

Un tuono fragoroso risveglia Dante dal sonno in cui era caduto sulla riva dell’acheronte. Egli si guarda intorno e si accorge di trovarsi sull’orlo della voragine infernale, buia e profonda. E’ preso da timore nel vedere che Virgilio impallidisce, ma il maestro lo rassicura: il suo pallore non è dovuto a spavento, ma a pietà per la sorte dei dannati.Entrati nel primo cerchio infernale, che è costituito dal limbo, i due poeti odono i sospiri delle anime di coloro che vissero una vita virtuosa senza aver ricevuto il battesimo. Per non essere state cristiane, non possono ascendere al paradiso; d’altra parte, non avendo in sé altra macchia se non il peccato di Adamo, non sono sottoposte a tormenti: la loro pena è tutta spirituale: vivono nel desiderio, mai appagato, di vedere Dio.Quattro spiriti si fanno incontro ai poeti: sono le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, venute a rendere onore a Virgilio. Esse salutano benevolmente Dante e l’accolgono nella loro schiera. I sei camminano insieme, discorrendo, e giungono in un luogo luminoso, ai piedi di un castello difeso da sette cerchi di muta e da un corso d’acqua, che essi attraversano come se fosse terraferma. Dopo aver varcato, passando per sette porte, il settemplice giro di mura, il gruppo dei sei poeti arriva in un prato verdissimo e fresco. Da un’altura Virgilio indica a Dante alcuni tra i più nobili spiriti dell’antichità e del Medioevo non cristiano.I due si separano quindi dai loro accompagnatori e, lasciato il limbo, giungono nuovamente in un luogo privo di luce.

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CANTO V

A guardia del secondo cerchio della voragine infernale i due pellegrini trovano il ringhioso Minosse. Questi, dopo aver udito la confessione dei peccatori che si affollano al suo cospetto, attorciglia la coda intorno al proprio corpo, per indicare, con il numero dei giri, il cerchio dove ogni dannato dovrà espiare la sua colpa. Nel secondo ripiano scontano il loro peccato le anime dei lussuriosi: nel buio un’incessante bufera le travolge, facendole dolorosamente cozzare le une contro le altre, cosicché l’aria è piena di lamenti.Pregato dal suo discepolo, Virgilio gli addita i personaggi celebri dell’antichità e del Medioevo che non seppero vincere in sé la passione, e che per essa perdettero la vita: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille... Dante esprime il desiderio di parlare con due di queste ombre: esse, diversamente dalle altre, procedono indissolubilmente unite e sembrano quasi non opporre resistenza al vento. Sono Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, colpevoli di adulterio. Chiamati da Dante, i due peccatori si accostano, e Francesca, manifestata al Poeta la sua gratitudine per aver egli avuto pietà della loro pena, narra di sé e dell’amore che con tanta forza la legò a Paolo. Dante, turbato, vuole sapere quali circostanze portarono il loro sentimento reciproco a trasformarsi in amore colpevole, e Francesca si abbandona ai ricordi del tempo felice: erano soli; leggevano un romanzo; fu quella lettura a far incontrare i loro sguardi, a farli trascolorare; fu il primo bacio scambiato fra i protagonisti di quel romanzo a renderli consapevoli della loro passione. Mentre Francesca parla, Paolo piange: a questa vista, per la profonda pietà, Dante perde i sensi.

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CANTO VI

Una pioggia nauseabonda, mista a grandine e neve, tormenta i dannati del terzo cerchio: i golosi. Un cane trifauce, Cerbero, li dilania senza tregua. Alla vista dei due poeti il mostro dà sfogo al suo furore, ma Virgilio non ha esitazioni: getta nelle fameliche gole una manciata di fango e la belva, tutta intenta a divorarlo, si placa. Dante, con il maestro, prosegue il suo cammino calpestando la sozza mistura di fango e ombre di peccatori, quando, all’improvviso, una di esse, levatasi a sedere, si rivolge a lui esclamando: « Riconoscimi, se ne sei capace ». Ma tanta è la sofferenza che ne deforma i lineamenti, da non consentire al Poeta di ravvisare in essi una fisionomia a lui nota. Allora il dannato rivela il suo nome, Ciacco, e profetizza, richiesto dal suo interlocutore, il prossimo trionfo in Firenze, covo di‘ ingiustizie e di odio, del partito dei Neri. Ad una precisa domanda del pellegrino Ciacco rivela che i grandi personaggi politici della Firenze del passato scontano i loro peccati nel buio dell’inferno. Terminato il suo dire, con un’espressione che non ha più nulla di umano, cade pesantemente a terra, in mezzo agli altri suoi compagni di pena. Virgilio, a questo punto, ricorda al suo discepolo che Ciacco, al pari degli altri dannati, riavrà il suo corpo nel giorno del Giudizio Universale e che, dopo la risurrezione della carne, le sofferenze dei reprobi aumenteranno d’intensità. Giunti nel punto ove è il passaggio dal terzo al quarto cerchio, i due viandanti s’imbattono nel demonio Pluto.

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CANTO VII

Con voce stridula e il volto gonfio d’ira, il guardiano del quarto cerchio, dove avari e prodighi scontano la loro pena eterna, grida parole incomprensibili all’indirizzo dei due poeti. Ma non appena Virgilio gli ricorda che il loro viaggio si compie per volontà di Dio, il suo furore svanisce; il mostro, come privato delle sue force, si accascia al suolo. Essi possono così discendere nel quarto ripiano, dove due fitte schiere di dannati spingono, in direzioni contrarie, grandi pesi. Due sono i punti del cerchio, diametralmente opposti, in cui le schiere si scontrano, rinfacciandosi a vicenda i peccati che le accomunano nel tormento disumano. Poi ciascun dannato si volge indietro e riprende a rotolare il proprio macigno fino all’altro punto d’incontro. La giostra beffarda è destinata a ripetersi in eterno. Questi peccatori sono irriconoscibili: la mancanza di discernimento che li spinse ad accumulare o sperperare il denaro, li confonde ora tutti in una massa indifferenziata ed anonima. "Nessuno dei beni che sono affidati al governo della Fortuna ricorda Virgilio - potrebbe dar loro pace nemmeno per un attimo. "Dante coglie, da questa affermazione del maestro, l’occasione per interrogarlo sulla natura della Fortuna. Essa non è - spiega il poeta latino - una potenza capricciosa e cieca che distribuisce i suoi favori a caso, ma una esecutrice dei disegni di Dio, poiché da Dio è voluto che i beni si trasferiscano, con alterna vicenda, da una famiglia all’altra, da un popolo all’altro. Stesso proprio quelli che dovrebbero ringraziarla la coprono di insulti. Ma essa, intelligenza celeste, assolve il suo compito imperturbabile e serena.

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CANTO VIII

Già prima di arrivare ai piedi della torre, i due poeti vedono accendersi sulla sua sommità due segnali luminosi, ai quali, da molto lontano, appena percettibile, risponde un terzo. Ed ecco avvicinarsi sulla sua antica barca, veloce al par di saetta, il custode della palude stigia, l’iroso Flegiàs, il quale, rivolto a Dante, grida: "Ti ho finalmente in mio potere, anima malvagia!" Virgilio delude questa speranza del nocchiero infernale: egli e il suo discepolo non sono venuti per rimanere nel cerchio degli iracondi, ma solo per attraversarlo. Mentre, sulla navicella di Flegiàs, i due solcano le acque melmose, ecco farsi avanti uno dei dannati della palude, il fiorentino Filippo Argenti, che apostrofa sarcasticamente il suo concittadino. Dante replica con espressioni di duro scherno, suscitando l’ammirazione di Virgilio che si compiace della nobile ira del discepolo. Ma questi non è ancora contento: vuole vedere il suo borioso antagonista immerso nel fango. Attraversato lo Stige, i due pellegrini sbarcano ai piedi delle mura di ferro rovente che cingono la città di Dite. Qui, più di mille seguaci di Lucifero si oppongono minacciosi all’ingresso di colui che, ancora in vita, impunemente è entrato nel regno dei morti.Il poeta latino esorta Dante a non perdersi d’animo e si reca a parlamentare con i diavoli. Ma poco dopo ritorna con i segni della sfiducia sul volto: la sua missione non è riuscita. Solo qualcuno più forte di lui potrà aprire la porta che immette nei cerchi formanti il basso inferno.

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CANTO IX

Dopo essere tornato presso Dante, Virgilio riacquista la propria serenità e incoraggia il suo discepolo ricordandogli di essere già disceso una volta fino al fondo dell’inferno. All’improvviso, sull’alto delle mura fortificate di Dite compaiono le tre Furie, mostri con sembianze di donna e chiome formate da un intrico di serpenti. Esse manifestano la loro ira per la presenza dei due poeti, dilaniandosi con le unghie, percuotendosi e gridando in maniera terrificante. Ma da sole sono impotenti a punire il vivo che ha osato violare la dimora della morte; per questo invocano a gran voce Medusa, la Gorgone che ha il potere di trasformare in pietra chiunque la guardi. Virgilio invita il suo discepolo a volgere le spalle, ed egli stesso gli copre gli occhi con le mani. Ma da lontano si preannuncia ormai l’arrivo del messo celeste. Lo precede un fragore d’uragano, mentre davanti a lui, che avanza sereno sulla palude stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi, i dannati, in numero sterminato, si danno alla fuga. Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, ma l’angelo non degna i due pellegrini di uno sguardo: altre preoccupazioni sembrano dominare il suo animo. Giunto davanti alla porta della città di Dite, la tocca con un piccolo scettro ed essa si apre senza difficoltà. Prima di ripercorrere il cammino per il quale è venuto, il messo rimprovera i diavoli per l’opposizione ai voleri dell’Onnipotente e ricorda la sorte toccata a Cerbero per aver voluto opporsi ad Ercole che era disceso negli Interi.Allontanatosi l’angelo, i due viandanti penetrano nell’interno della città: davanti a loro si apre una grande pianura cosparsa di tombe, che richiama alla memoria di Dante le necropoli romane di Arles e di Pola. Ma qui i sepolcri, tutti aperti, sono arroventati dalle fiamme. In essi si trovano le anime degli eretici. I due poeti si incamminano lungo un sentiero che corre tra le mura e le tombe infuocate.

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CANTO X

Entrati nella città di Dite, i due poeti si avviano per un sentiero che corre fra le mura e quella parte della necropoli degli eretici ove sono puniti gli epicurei, negatori dell’immortalità dell’anima. Improvvisamente, da uno degli avelli infuocati, una voce prega Dante di fermarsi: è quella del capo ghibellino Farinata degli Uberti che, dal suo modo di parlare, ha riconosciuto nel Poeta un compatriota. Dante si avvicina al sepolcro nel quale Farinata sta in piedi, visibile dalla cintola in su.Tutti i pensieri di questo dannato sono rivolti al mondo dei vivi, a Firenze, al suo partito: egli vuole anzitutto sapere se Dante appartiene a una famiglia guelfa o ghibellina. Non appena il Poeta gli rivela il nome dei suoi avi, si vanta di averli per ben due volte debellati. Dante ribatte che essi non furono vinti, ma solo mandati in esilio e che dall’esilio seppero tornare sia la prima sia la seconda volta, laddove gli Uberti furono banditi per sempre dalla città. A questo punto il dialogo è interrotto dall’angosciosa domanda che un altro eretico, egli pure fiorentino, Cavalcante dei Cavalcanti, rivolge a Dante: " Se la tua intelligenza ti ha valso il privilegio di visitare, vivo, il regno dei morti, perché mio figlio Guido non è con te?" Il Poeta indugia nel rispondere e Cavalcante, credendo che il figlio sia morto, ricade, senza una parola, nel suo sepolcro.Riprende a parlare Farinata, che vuole sapere il motivo di tanto accanimento contro la sua famiglia. Dante gli fa il nome di un fiume - l’Arbia - le cui acque furono arrossate dal sangue dei Fiorentini che nel 1260 morirono combattendo contro i fuorusciti ghibellini comandati appunto da lui, Farinata degli Uberti: e questi ricorda allora, a suo merito, come fu lui solo, dopo quella sanguinosa giornata, ad opporsi a viso aperto al progetto, avanzato dagli altri ghibellini, di radere al suolo la vinta Firenze.L’episodio si conclude con la spiegazione che Farinata fornisce a Dante sulla conoscenza che i dannati hanno del corso degli eventi terreni. I due pellegrini riprendono quindi il loro cammino dirigendosi verso la zona centrale del cerchio.

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CANTO XI

Sul margine interno del sesto cerchio, al riparo della tomba infuocata di un seguace dell’eresia monofisita (Anastasio II), i due viandanti sono costretti, a causa dell’orribile odoreche si sprigiona dal baratro aperto al loro piedi, ad una sosta forzata. Virgilio ne approfitta per spiegare al suo discepolo l’ordinamento dei tre cerchi infernali che deve ancora visitare. Nel settimo cerchio sono puniti i peccatori per violenza contro il prossimo, contro se stessi e contro Dio, nell’ottavo e nel nono quelli che si sono serviti della frode propriamente detta (contro chi non si fida) e del tradimento (frode contro chi si fida) per raggiungere i loro fini.Poiché Dante desidera sapere il motivo per cui i dannati dei primi cinque cerchI sono fuori delle mura di Dite, Virgilio gli ricorda la partizione aristotelica del male in tre categorie (incontinenza, malizia e matta bestialità): nell’alto inferno si trovano appunto gli incontinenti, coloro cioè che non seppero serbare la misura in azioni di per sé non riprovevoli, mentre all’interno della città di Dite si trovano coloro il cui peccato ha avuto per fine la deliberata violazione di una legge. Dante si dichiara soddisfatto della spiegazione del maestro, ma lo prega di chiarirgli perché il peccato d’usura offende, ancor prima che il prossimo, Dio e l’ordine da Dio Imposto alle cose del mondo. Virgilio gli richiama alla memoria il passo della Fisica di Aristotile, ove il lavoro umano è definito una imitazione della natura e quello della Genesi, in cui Dio impone all’uomo di lavorare. Poi lo esorta a riprendere il cammino verso il dirupo per il quale si scende dal sesto al settimo cerchio.

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CANTO XII

I due poeti scendono per un dirupo dal sesto al settimo cerchio. Qui trovano, a sbarrare il cammino, il frutto dell’innaturale connubio di Parsifae con un toro, il Minotauro. Nel vederli, accecato dall’ira, il mostro morde se stesso, poi, quando ode rievocati da Virgilio la propria uccisione ad opera di Teseo e il tradimento della sorella Arianna, saltella qua e là come toro colpito a morte. I due ne approfittano per scendere ai piedi della frana. Virgilio spiega a Dante come essa sia la conseguenza del terremoto che precedette la discesa di Cristo nel limbo, allorché l’intero universo sembrò per un attimo volersi nuovamente convertire nel caos originario. Il settimo cerchio è tutto occupato da un fiume di sangue bollente, in cui sono immersi i violenti contro il prossimo. A guardia dei dannati sono posti i centauri. Armati di arco e di frecce, come quando, in terra, solevano andare a caccia, hanno il compito di impedire alle ombre di emergere dal sangue più di quanto la loro pena comporti. Il centauro Nesso scambia i viandanti per due anime e chiede loro a quale pena siano destinati. Ma Virgilio vuole parlare soltanto con Chirone, il leggendario maestro di Achille; giunto in sua presenza, gli fornisce esaurienti spiegazioni sul loro viaggio nel regno delle ombre: " Sì, Dante è vivo e devo mostrargli l’inferno; l’itinerario che percorre è necessario alla salvezza della sua anima; dall’alto dei cieli un’anima beata scese per affidarmi l’incarico di guidarlo nel cammino; non siamo anime di peccatori ". Poi chiede a Chirone una guida che mostri loro il punto dove si può guadare il fossato, e il saggio centauro designa a questo incarico Nesso. A mano a mano che i tre avanzano lungo la riva, Nesso elenca i dannati che sono immersi nel sangue: dei tiranni sono visibili soltanto i capelli, degli omicidi l’intera testa, dei predoni la testa e il petto. Giunti al guado, i tre passano sulla riva opposta; poi Nesso, adempiuto il suo compito, torna indietro.

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CANTO XIII

I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita, incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie. Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima. Il discorso di Pier delle Vigne è interrotto dall’apparizione delle ombre di due scialacquatori e, dietro loro, di una muta di nere cagne fameliche. Mentre uno di questi due dannati . riesce a sottrarsi alla caccia, l’altro, esausto, cerca riparo in un cespuglio, ma le cagne, non tardano a scoprirlo e lo sbranano ferocemente. La loro violenza non risparmia neppure il cespuglio, dal quale una voce si leva a protestarle contro tanto scernpio. Quella che adesso parla è l’anima di un suicida fiorentino: prega i due pellegrini di raccogliere ai piedi del suo corpo vegetale le fronde di cui è stato mutilato e lamenta le sventure abbattutesi sulla sua città.

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CANTO XIV

Dopo aver radunato le fronde intorno al cespuglio del suo concittadino, Dante giunge insieme a Virgilio, sul limitare del terzo girone. In questa parte del settimo cerchio una lenta, inesorabile pioggia di fiamme si riversa sopra una distesa di sabbia infuocata. Tre gruppi di anime soggiacciono a tre diversi tormenti: i bestemmiatori, violenti contro Dio, supini, espongono tutto il loro corpo al fuoco che cade; gli usurai, violenti contro l’arte, stanno seduti, i sodomiti, violenti contro natura, devono camminare senza tregua. I bestemmiatori sono i meno numerosi, ma i loro lamenti soverchíano quelli degli altri. Fra loro spicca una figura gigantesca, che sembra incurante del castigo divino. E’ Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, ucciso per la sua empietà dalla folgore di Giove. Egli non ha perduto la sua arroganza e sfida, deridendolo, il signore dell’Olimpo a colpirlo ancora una volta con le armi forgiate da Vulcano e dal Ciclopi, ma Virgilio to redarguisce duramente. I due poeti proseguono il loro cammino finché arrivano nel punto in cui dalla selva dei suicidi esce un fiumicello rosso e bollente. I fiumi infernali hanno la loro origine - spiega Virgilio - in terra. In mezzo al Mediterraneo c’è un’isola, un tempo ricca di vegetazione e felice, ora deserta: Creta. Ivi, in una grotta all’interno del monte Ida, c’è l’enorme statua di un vecchio, che volge le spalle all’Egitto e tiene lo sguardo fisso in direzione di Roma. La sua testa è d’oro, il petto d’argento, il ventre di rame, le gambe di ferro, il piede destro, sul quale il simulacro poggia, di terracotta. All’infuori del capo, ogni altra parte della statua presenta fessure dalle quali sgorgano lagrime. Il pianto di questa statua forma i fiumi infernali e lo stagno Cocito. Il canto si conclude con i chiarimenti che Virgilio dà al discepolo sull’ubicazione del Flegetonte, il fiume di sangue che occupa il primo girone e dal quale il fiumicello deriva, prendendone anche il nome, e del Letè, il fiume dell’oblio, le cui acque bagnano il paradiso terrestre, in cima al monte del purgatorio.

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CANTO XV

Per evitare la pioggia di fiamme i due pellegrini avanzano su uno degli argini del fiumicello che attraversa il terzo girone e s’imbattono in una schiera di anime di dannati, uno dei quali afferra Dante per il lembo della veste e manifesta la propria meraviglia nel vederlo in quel luogo. Il Poeta lo riconosce, nonostante abbia il volto devastato dal fuoco: Brunetto Latini, il suo maestro, che esprime il desiderio di affiancarsi a lui nel cammino. Nessuno, infatti, dei violenti contro natura può interrompere il proprio andare: chi infrange questa legge è poi condannato a giacere cento anni sotto la pioggia di fuoco senza poter scuotere da sé le fiamme che lo colpiscono. Dante continua pertanto a camminare sull’argine e riceve da Brunetto la predizione della sorte che il futuro gli riserva: "Se rimani fedele ai principii che hanno fin qui ispirato le tue azioni, la tua opera ti darà la gloria ". Poi il discorso cade su Firenze e la faziosità dei Fiorentini, in massima parte discendenti dai rozzi abitanti di Fiesole, avari, invidiosi, superbi. Sia l’uno sia l’altro Partito in cui la città è divisa - aggiunge Brunetto - cercherà di avere Dante in suo potere, ma non riuscirà in questo intento. Il Poeta a sua volta tesse l’elogio del suo maestro, dal quale ha appreso come l’uomo ottiene gloria fra i posteri, e dichiara che questa profezia, come quella di un altro spirito, Farinata, verrà sottoposta all’interpretazione di Beatrice. Per il resto si dice pronto a far fronte ai colpi del destino. Pregato dal Poeta, Brunetto nomina alcuni fra gli spiriti condannati alla sua stessa pena, quindi si accommiata, raccomandandogli la sua opera maggiore, il Tesoro, attraverso la quale sopravviverà nel ricordo degli uomini.

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CANTO XVI

Mentre i due pellegrini continuano a camminare sull’argine del fiumicello, da una schiera di sodomiti si staccano tre ombre e corrono verso di loro. Poiché aI violenti contro natura non è concesso neppure un attimo di sosta, questi dannati si dispongono in cerchio, in modo da continuare a camminare senza allontanarsi da Dante e Virgilio. Uno di loro, Jacopo Rusticucci, si rivolge al Poeta, parlando di sé e dei suoi compagni, Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi. Furono cittadini illustri di Firenze e contribuirono, in pace e in guerra alla prosperità della loro patria. Dante esprime il proprio dolore per averli incontrati fra i reprobi del settimo cerchio e il profondo rispetto che nutre per la loro memoria; poi dichiara che in Firenze non albergano più le virtù di un tempo: orgoglio e intemperanza hanno sostituito, nel cuore dei suoi abitanti, cortesia e valore. Dileguatisi i tre, Dante prosegue con il maestro verso l’orlo del ripiano, dove le acque del Flegetonte precipitano nel cerchio ottavo. Il Poeta consegna una corda che gli cinge i fianchi a Virgilio, il quale la getta nel profondo abisso che si apre ai loro piedi. Poco dopo ecco salire dalla buia voragine una figura simile, nel suoi movimenti a quella del marinaio che torna a galla dopo aver disincagliato l’ancora della nave.

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CANTO XVII

Virgilio indica a Dante il mostro che è salito dall’abisso e che, ad un suo cenno, si pone con la testa e il tronco sull’orlo interno del settimo cerchio. L’aspetto di questa belva, che simboleggia la frode e che ha il nome di un re crudelissimo ucciso da Ercole, Gerione, è di uomo nel volto, di serpente nel corpo e di scorpione nella coda. Mentre Virgilio si dirige verso Gerione per chiedergli di trasportare lui e il suo discepolo sul fondo del baratro, Dante si avvicina ad un gruppo di peccatori che, seduti sulla sabbia rovente e colpiti dalla pioggia di fuoco, cercano inutilmente di alleviare il loro tormento agitando le mani. Sono gli usurai. Il Poeta non ne riconosce alcuno, ma nota che tutti portano appesa al collo una borsa sulla quale è dipinto uno stemma gentilizio: questi dannati non hanno dunque soltanto offeso Dio, ma anche avvilito la dignità del loro nome. Uno di essi rivolge a Dante la parola: si proclama padovano, dice che tutti i suoi compagni di pena sono fiorentini e annuncia la prossima venuta di un altro usuraio, nobile anch’egli e famosissimo. Tornato sui suoi passi, Dante trova Virgilio già salito in groppa a Gerione. Esortato dal maestro, vince la sua paura e si pone anch’egli a cavalcioni del mostro, che, ad un comando del poeta latino, inizia a scendere lentamente, a larghe spirali, mentre appare, sempre più vicino, lo spettacolo dei tormenti del ripiano infernale che si apre sotto i loro occhi. Gerione, dopo aver deposto i due pellegrini sul fondo del precipizio che separa il settimo cerchio dall’ottavo, si dilegua con la rapidità di una freccia.

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CANTO XVIII

Scesi dalla groppa di Gerione, i due pellegrini si trovano sull’argine più esterno dell’ottavo cerchio, detto Malebolge e diviso in dieci avvallamenti concentrici. Nel primo di questi avvallamenti o bolge sono puniti i seduttori per conto altrui e quelli per conto proprio. Divisi in due gruppi avanzano in direzioni opposte, implacabilmente frustati dal diavoli. Nella schiera dei ruffiani Dante riconosce il bolognese, Venedico Caccianemico, che indusse con discorsi fraudolenti la propria sorella ad una condotta disonesta, e lo costringe a confessare la sua colpa. Tra i seduttori per conto proprio Virgilio gli addita Giasone; il leggendario eroe, colpevole nel confronti dell’inesperta Isifile e di Medea, entrambe da lui tratte in inganno, incede incurante delle sferzate dei diavoli, con atteggiamento regale, senza manifestare il suo dolore. Passati sul secondo argine attraverso un ponte naturale che scavalca il primo avvallamento, i due poeti vedono aprirsi davanti al loro occhi la bolgia degli adulatori. Tra questi Dante riconosce, immerso nello sterco come i suoi compagni di pena, il lucchese Alessio Interminelli e violentemente lo apostrofa. Poco oltre Virgilio gli mostra una donna che con le proprie unghie si dilania e non trova pace né in piedi né seduta: è la meretrice Taide, che in vita fu maestra nell’arte di ingannare con l’adulazione.

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CANTO XIX

La terza bolgia, dall’alto del ponte che la sovrasta, appare. interamente disseminata di buche circolari. Da ciascuna di queste spuntano le gambe di un dannato confitto in essa a testa in giù e con le piante dei piedi lambite dalle fiamme. I peccatori che la giustizia divina cosi punisce sono i simoniaci, coloro cioè che hanno fatto commercio delle cose sacre. Dante ferma la sua attenzione su di uno che agita le gambe con impeto più disperato degli altri e che è tormentato da un fuoco più doloroso. Perché il suo discepolo possa apprendere da questo dannato i motivi che lo indussero ad infrangere la legge di Dio, Virgilio lo porta sul fondo della bolgia. Invitato a parlare, il peccatore apostrofa Dante chiedendogli il motivo del suo arrivo nel regno dell’eterno dolore prima del termine a lui prescritto lo ha infatti scambiato per Bonifacio VIII, destinato a prendere il suo posto all’apertura della buca dei papi simoniaci. Dopo aver compreso il suo errore, rivela la propria identità: fu Niccolò III, della stirpe rapace degli Orsini; E’ dannato per aver favorito in modo fraudolento i propri familiari. Il posto di Bonifacio VIII sarà poi occupato da un altro pontefice, ancora più scellerato, Clemente V. Travolto dall’indignazione, Dante prorompe i n una violenta invettí va contro la sete di beni materiali che ha allontanato i vicari di Cristo dai compiti che loro assegnò il divino Maestro e ravvisa nella Chiesa avida di potere e di ricchezze il mostro dalle sette teste e dalle dieci corna di cui parla l’Apocalisse. Ricorda quindi con dolore la donazione di alcuni terrítori che l’imperatore Costantino fece a papa Silvestro, origine prima del potere temporale dei pontefici e delle discordie che travagliano l’umanità. Poi Virgilio lo riporta sull’argine che separa la terza bolgia dalla quarta e di lì sul ponte che scavalca quest’ultima.

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CANTO XX

Dall’alto del ponte Dante dirige il suo sguardo verso il fondo della quarta bolgia, dove una moltitudine di anime - quelle degli indovini - avanza in silenzio piangendo. Ciascuna di esse ha il viso completamente rivolto all’indietro, in modo che le lagrime bagnano la parte posteriore del corpo. Nel vedere la figura umana così stravolta Dante non riesce a trattenere un moto di commozione, ma Virgilio lo rimprovera aspramente, facendogli notare che essere pietosi verso siffatti peccatori significa ignorare la vera pietà. Poi gli rivela il nome di alcuni di loro: Anfiarao, che la terra inghiotti sotto le mura di Tebe assediata, Tiresia, che un arcano prodigio trasformò in donna e che poi riprese le sembianze maschili, Arunte, che contemplava il cielo e il mare da una spelonca nel monti dell’Etruria, Manto, la figlia di Tiresia, la quale, dopo aver errato a lungo per il mondo, si stabilì in una regione deserta dell’Italia, nel punto in cui il Mincio, alimentato dalle acque del Garda, formava una palude. Qui l’indovina morì e qui gli abitanti sparsi nei luoghi vicini fondarono, dopo la sua morte, una città che chiamarono Mantova. Tra gli indovini dell’antichità Virgilio addita ancora al suo discepolo Euripilo, che insieme a Calcante dette alla flotta greca ancorata in Aulíde il segnale della partenza per Troia, poi menziona alcuni tra i dannati che si resero celebri nel Medioevo per aver esercitato l’arte della magia.

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CANTO XXI

I due pellegrini giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia, straordinariamente buia a causa della pece bollente che ne occupa il fondo e nella quale sono immersi i barattieri, coloro cioè che fecero commercio dei pubblici uffici. Mentre Dante è intento a guardare in basso, sopraggiunge veloce un diavolo e, dall’alto del ponte, getta nella pece uno degli «anziani» di Lucca, città nella quale, a suo dire, tutti sono barattieri. Il dannato, dopo il tuffo violento, viene a galla, ma i custodi della bolgia, i Malebranche, lo costringono ad immergersi nuovamente. A questo punto Virgilio, dopo aver fatto nascondere Dante dietro uno spuntone roccioso, si dirige verso i diavoli e fa presente al loro capo, Malacoda, che il viaggio intrapreso da lui e dal suo discepolo è voluto dal cielo; poi invita Dante ad uscire dal suo nascondiglio. Alla sua vista i Malebranche tentano di uncinarlo; occorre che Malacoda faccia ricorso a tutta la sua autorità perché desistano dal loro proposito. Malacoda fornisce quindi a Virgilio indicazioni riguardo allo scoglio che porta alla sesta bolgia, essendo crollato, su quest’ultima, il ponte posto in continuazione di quelli che i due poeti hanno fino a questo punto percorso. Dà poi loro come scorta un gruppo di dieci suoi sottoposti, comandati da Barbariccia. I dieci diavoli si mettono in fila e Barbariccia, attraverso uno sconcio segnale, impartisce loro l’ordine della partenza.

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CANTO XXII

A mano a mano che il drappello guidato da Barbariccia si avvicina, i barattieri che affiorano con l’arco della schiena alla superficie della palude bollente e quelli che, disseminati lungo le sue rive, stanno come rane sull’orlo di un fossato, si tuffano in essa con rapidità fulminea. Uno di loro tuttavia non fa in tempo a nascondersi. E’ Ciampolo di Navarra, che Graffiacane è riuscito a prendere con il suo uncino. Il barattiere, dopo avere narrato di sé e dei suoi compagni di pena, promette di farne venire molti nel punto in cui si trova, purché i Malebranche si tengano un po’ in disparte. Su consiglio di Alichino la sua proposta viene accettata, ma non appena i diavoli si volgono verso uno degli argini della bolgia, Ciampolo spicca un salto e scompare sotto la pece. Alichino, dopo aver tentato vanamente di raggiungerlo volando, è afferrato da un altro dei Malebranche, Calcabrina, il quale, adirato per lo smacco subìto, si azzuffa con lui. I due diavoli finiscono per cadere nella pece bollente. Mentre Barbariccia, addolorato, dà disposizioni al suoi sottoposti perché si adoperino a salvare i loro compagni, Dante e Virgilio si avviano per lasciare la quinta bolgia.

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CANTO XXIII

Inferociti per lo smacco subito, i Malebranche inseguono i due pellegrini, ma questi riescono a porsi in salvo calandosi per il dirupo che porta nella sesta bolgia. Qui una folla di anime, quelle degli ipocriti, avanza a passi lentissimi, oppressa da pesanti cappe di piombo, tutte dorate esteriormente. Due dei dannati pregano Dante e Virgilio di sostare ed uno, invitato dal Poeta, parla di sé e del compagno e accenna alla loro colpa: bolognesi e frati Gaudenti entrambi, ricoprirono insieme a Firenze la carica di podestà, con il compito di riportare la pace fra i partiti. I risultati della loro doppiezza sono ancora visibili nei pressi del Gardingo, dove un tempo sorgevano le dimore degli Uberti, poi rase al suolo. Dante di nuovo rivolge loro la parola, ma all’improvviso tace, poiché il suo sguardo si ferma su un peccatore crocifisso a terra per mezzo di tre pali. Uno dei due frati Gaudenti gli spiega che si tratta del gran sacerdote Caifas, il quale suggerì al Farisei di suppliziare e uccidere Cristo; poi rivela che nessun ponte scavalca la sesta bolgia. Malacoda ha dunque mentito. Virgilio, crucciato, si allontana a gran passi, seguito dal discepolo.

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CANTO XXIV

Il turbamento di Virgilio per la menzogna di Malacoda ha fatto sbigottire Dante, ma egli riprende coraggio non appena il poeta latino, prima di iniziare la salita lungo la frana che porta sulla sommità del settimo argine, si volge a lui con volto benigno. L’ascesa è ardua: nonostante i consigli e l’aiuto del maestro, Dante giunge stremato sul ponte della settima bolgia e occorre che Virgilio gli ricordi che la fama si conquista soltanto vincendo gli ostacoli e trionfando delle difficoltà, perché riprenda il cammino. Dall’alto del ponte di roccia lo spettacolo che si mostra alla vista dei due pellegrini è strano e orrido: il fondo della bolgia pullula di serpenti e di anime spaventate che fuggono senza speranza. All’improvviso un dannato, trafitto al collo da un serpente, brucia, si trasforma in cenere e dalla cenere risorge con le fattezze di prima. Interrogato da Virgilio, dice di essere il pistoiese Vanni Fucci, di aver condotto una vita più consona ad una bestia che ad un uomo, di trovarsi nella settima bolgia, fra i ladri, per un furto sacrilego compiuto nella sua città. Poi profetizza, perché Dante ne soffra, una sanguinosa vittoria dell’esercito dei Neri, guidato dal marchese Moroello Malaspina, su quello dei Bianchi di Pistoia e di altre città.

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CANTO XXV

Dopo aver predetto a Dante la sconfitta dei Bianchi ad opera di Moroello Malaspina, Vanni Fucci alza le mani in un gesto osceno contro Dio, ma due serpenti si avventano immediatamente contro di lui, ponendo termine all’ostentazione di tanta superbia. Il ladro pistoiese, con le braccia e il collo chiusi, nelle loro spire, fugge inseguito dal centauro Caco, colpevole anche quest’ultimo di furto eseguito con frode. Tre dannati vengono nel frattempo a fermarsi sotto l’argine roccioso dal quale i due pellegrini hanno assistito alla trasformazione di Vanni Fucci in cenere, alla sua riconversione in figura di uomo, alla sua punizione ad opera dei serpenti. Nuove, più allucinanti metamorfosi si svolgono sotto i loro occhi. Un serpente munito di sei piedi si lancia contro uno di questi ladri e si abbarbica al suo corpo come l’edera ad un albero. Come se fosse di cera la forma umana si trasferisce in quella del serpente, mentre questa, a sua volta, si perde in quella dell’uomo. Il risultato di questa innaturale fusione è un mostro dall’aspetto indefinibile, che incomincia a percorrere in silenzio, con lento passo, il fondo della bolgia. Non appena questa metamorfosi si è compiuta, un serpentello - che è uno dei peccatori già trasformati - con la velocità di un fulmine trafigge l’ombelico ad un altro dei tre ladri, ricadendo poi a terra davanti a lui come privo di forze, stregato. Mentre il serpente e l’uomo si guardano negli occhi attraverso il fumo che, uscendo dalla bocca del rettile si scontra con quello che si sprigiona dalla ferita dell’uomo, avviene la terza delle trasformazioni della settima bolgia, quella che nessuno dei poeti antichi è riuscito ad immaginare: l’uomo assume a poco a poco le fattezze del serpente che gli sta davanti, questo si . trasforma nel dannato che ha ferito. La pena di coloro che in vita privarono il prossimo di beni materiali sui quali non potevano accampare alcun diritto, è di essere privati del solo bene inalienabile di cui, per legge di natura, un uomo può disporre: la propria figura umana.

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CANTO XXVI

I due pellegrini lasciano la bolgia dei ladri e riprendono il faticoso cammino. Dall’alto del ponte che sovrasta l’ottava bolgia questa appare loro percorsa da fiamme simili alle lucciole che il contadino vede nella valle quando si riposa, alla sera, sulla sommità della collina. Ogni fiamma nasconde un peccatore. In una di esse, che si distingue dalle altre per il fatto di terminare con due punte, scontano le loro colpe - l’inganno che costrinse Achille a partecipare alla guerra di Troia, il ratto fraudolento del Palladio, lo stratagemma che causò la rovina del regno di Priamo - due Greci: Ulisse e Diomede. Poiché Dante ha manifestato il desiderio di udirli parlare, Virgilio si rivolge alla fiamma biforcuta pregando affinché uno dei due eroi riveli il luogo della sua morte. Dalla punta più alta esce allora la voce di Ulisse. Egli racconta che, dopo la sosta presso la maga Circe, nulla poté trattenerlo dall’esplorare il Mediterraneo occidentale fino alle colonne d’Ercole, limite del mondo conoscibile. Qui giunto, si rivolse ai fedeli compagni, come lui invecchiati nelle fatiche e nei rischi: "Fratelli, nel poco tempo che ci rimane da vivere, non vogliate che ci resti preclusa la possibilità di conoscere il mondo disabitato. Seguiamo il sole nel suo cammino. La vita non ci fu data perché fosse da noi consumata nell’inerzia, ma perché l’arricchissimo attraverso la validità delle nostre azioni e delle conoscenze da noi raggiunte". Questo breve discorso infiammò a tal punto i membri dell’equipaggio, che i remi parvero trasformarsi in ali e la nave volare sulla superficie dell’oceano inesplorato. Cinque mesi dopo il passaggio attraverso lo stretto di Gibilterra una montagna altissima si mostrò all’orizzonte. Da questa ebbe origine un turbine; la nave girò tre volte nel vortice delle onde, poi si inabissò; il mare si chiuse sopra di essa.

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CANTO XXVII

Appena l’Ulisse ha finito di parlare, un’altra fiamma attira l’attenzione dei due poeti, agitandosi e rumoreggiando. Quando infine il sibilo riesce a trasformarsi in parole, la fiamma chiede a Virgilio, che ha riconosciuto per italiano dal modo di parlare, notizie sulla Romagna. Su invito del maestro, Dante delinea un quadro delle condizioni politiche di quella regione, dominata da tiranni sempre pronti alla guerra; poi chiede al peccatore chi egli sia. E quello si fa conoscere, certo di parlare a chi mai potrà tornare fra i vivi, per riferire intorno alla sua pena eterna. "Fui guerriero - dice - e poi frate francescano, credendo in tal modo di riparare al male da me fatto. E non sarei qui fra i dannati, se non fosse stato il pontefice stesso a farmi ricadere nella vita malvagia alla quale avevo voltato le spalle. Nel periodo in cui, con somma ipocrisia, aveva bandito una crociata contro gli stessi cristiani (la famiglia romana dei Colonna), senza alcun ritegno, fattomi chiamare, Bonifacio VIII mi chiese che gli suggerissi il modo migliore per impadronirsi della roccaforte di Palestrina. Le sue parole mi parvero quelle di un uomo fuori di senno. Tacqui. Allora, dopo avermi ricordato che era in suo potere aprire e chiudere le porte del cielo, mi assolse dal peccato che avrei commesso dandogli il consiglio richiesto. Fu così che gli suggerii di promettere molto ai suoi nemici per poi non tenere fede alle promesse. Quando morii, San Francesco venne per portare la mia anima in cielo, ma il diavolo lo fermò con queste parole: "Quest’anima deve seguirmi nel regno dell’eterna dannazione, poiché è contraddittorio che ci si possa pentire di una colpa che si ha l’intenzione di compiere. Io sono uno spirito logico". Quando fui davanti a Minosse questi avvolse otto volte la coda intorno al suo corpo, destinandomi in tal modo nel cerchio ottavo." Ciò detto, la fiamma si allontana. I due pellegrini procedono oltre e giungono sul ponte che sovrasta la bolgia dei seminatori di discordia.

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CANTO XXVIII

La nona bolgia appare ai due pellegrini come un immenso carnaio: nessun discorso umano potrebbe suggerire un’idea della sterminata moltitudine di feriti e mutilati che si affollano in essa. I dannati fanno il giro della bolgia, in eterno; le loro piaghe, che via via si rimarginano, vengono nuovamente aperte, ad ogni nuovo giro, da un diavolo armato di spada. Davanti agli occhi dei due poeti passano dapprima Maometto, il fondatore della religione islamica, ed Alì, uno dei suoi primi seguaci. Il primo ha il corpo squarciato, il secondo la testa spaccata in due. In tal modo essi scontano, insieme agli altri peccatori della bolgia, la loro colpa: quella di aver introdotto la discordia nel mondo. Quindi un altro dannato si fa avanti: è Pier da Medicina, un contemporaneo di Dante, il quale predice la sanguinosa fine, ad opera di Malatestino da Verrucchio, signore di Rimini, di due cittadini di Fano. Poi, su richiesta del Poeta, fa il nome di un suo compagno di sventura, che, avendo la lingua recisa, non può parlare. E’ il tribuno della plebe Curione, colui che vinse le ultime esitazioni di Cesare e lo indusse ad attraversare il Rubicone, dando così inizio alla guerra civile contro Pompeo. Sopraggiunge un dannato con le mani tagliate e i moncherini grondanti sangue: è Mosca dei Lamberti, il responsabile della divisione dei Fiorentini in Guelfi e Ghibellini e della distruzione della propria famiglia. Dante vede infine avanzare l’ombra di un decapitato. Costui porta la sua testa in mano, reggendola per i capelli, come se fosse una lanterna.Giunto sotto il ponte sul quale si trovano Dante e Virgilio, leva il braccio, in modo che i due poeti possano ascoltare le sue parole, e dice: "lo sono Bertran de Born, colui che indusse Enrico III d’lnghilterra a ribellarsi al padre Enrico II; poiché ho reso nemiche due persone che un vincolo così stretto legava, porto la mia testa separata dal corpo. In tal modo è applicata, in me, la legge del contrappasso".

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CANTO XXIX

Prima di lasciare la nona bolgia Dante cerca con gli occhi in essa un suo congiunto, Geri del Bello, seminatore di discordia, la cui morte violenta è rimasta invendicata, ma Virgilio gli ricorda che l’ombra di questo suo parente è passata sotto il ponte, mostrando sdegno e minacciandolo col dito, quando egli era tutto intento ad osservare Bertran de Born. Ripreso il cammino, i due pellegrini giungono sopra l’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, nella quale si trovano i falsatori, divisi in quattro categorie: falsatori di metalli con alchimia, falsatori di persone, falsatori di monete, falsatori di parole. Con il corpo deformato da orribili morbi giacciono a mucchi o si trascinano carponi gli alchimisti. Due di questi dannati attirano l’attenzione di Dante: stanno seduti, appoggiandosi l’uno alla schiena dell’altro, e cercano, con furiosa impazienza, di liberarsi delle croste che li ricoprono interamente. Furono arsi sul rogo dai Senesi, il primo, Griffolino d’Arezzo, per non avere mantenuto fede alla promessa di far alzare in volo, novello Dedalo, uno sciocco; il secondo, Capocchio, per aver falsificato i metalli, da quell’eccellente imitatore della natura che fu in vita.

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CANTO XXX

Appena Capocchio ha finito di parlare, Gianni Schicchi, un peccatore che si trova nella decima bolgia per essersi sostituito, fingendosi infermo e moribondo, a Buoso Donati già morto ed aver dettato il testamento di quest’ultimo in proprio favore, lo addenta furiosamente. Insieme a Gianni Schicchi percorre la bolgia correndo, Mirra, colpevole di aver alterato le proprie sembianze per soddisfare una insana passione. Dopo che le due ombre rabbiose si sono dileguate, Dante scorge un dannato il cui corpo, deformato dall’idropisia, ha la forma di un liuto. E’ maestro Adamo, che coniò, per incarico dei conti Guidi di Romena, forini di Firenze aventi tre carati di metallo vile. Questo suo reato gli valse la condanna al rogo e la dannazione eterna. Pregato da Dante, fa il nome di due suoi compagni di pena che una febbre altissima tormenta. Sono la moglie dell’egiziano Putifar, che accusò ingiustamente Giuseppe di averla insidiata, e il greco Sinone, reo di aver persuaso Priamo a fare entrare in Troia il cavallo di legno escogitato da Ulisse. Sinone, forse indispettito per la menzione poco onorevole che di lui ha fatto maestro Adamo, sferra sul ventre dell’idropico un pugno vigoroso, ma il coniatore di falsi fiorini non tarda a rispondergli colpendolo violentemente sul volto. I due cominciano allora a rinfacciarsi a vicenda sia le colpe passate, sia i morbi che attualmente deformano le loro fattezze. Virgilio interviene infine a distogliere il discepolo dall’assistere a un così plebeo spettacolo.

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CANTO XXXI

Mentre i due pellegrini, voltate le spalle all’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, si avviano in silenzio verso l’orlo del pozzo in cui sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, alto, terribile, lacera l’aria il suono di un corno. Dante volge lo sguardo nella direzione dalla quale il suono è provenuto; crede di vedere molte torri, per cui domanda al maestro verso quale città si stiano dirigendo. Virgilio risponde che quelle che a Dante sembrano, da lontano, le torri di una cerchia di mura sono in realtà le forme immani dei corpi dei giganti; questi sovrastano con la parte superiore del corpo l’orlo del pozzo dei traditori. I due poeti s’imbattono dapprima in Nembrot, l’ideatore della torre di Babele, per la cui colpa gli uomini non parlano più la medesima lingua. Poiché le parole da lui pronunciate sono incomprensibili, Virgilio lo schernisce, esortandolo a sfogare la sua ira con il corno che porta appeso al collo. Alla distanza di un tiro di balestra da Nembrot si trova, saldamente avvinto da una catena, un altro gigante: è Fialte, distintosi nella lotta dei titani contro gli dei; ora non può più muovere le braccia che si avventarono contro i signori dell’Olimpo. Allorché i due giungono presso Anteo, Virgilio si rivolge cortesemente a questo gigante, adulandolo: gli ricorda i leoni innumerevoli catturati nella valle poi divenuta insigne per la vittoria di Scipione su Annibale e ne elogia la forza. Il poeta latino prega quindi Anteo di deporre lui e il suo discepolo sulla superficie ghiacciata di Cocito, promettendogli in cambio fama nel mondo dei vivi. Senza pronunciare parola il gigante acconsente alla richiesta di Virgilio. Nell’attimo in cui si china per afferrare i due pellegrini, la sua figura richiama alla mente di Dante l’immagine della torre della Garisenda, minacciosamente incombente su chi la contempla dal basso; ma delicato è il movimento eseguito dalla sua mano per posarli sul fondo della voragine infernale.

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CANTO XXXII

Nella prima zona del nono cerchio (la Caina), confitti nel ghiaccio fino al collo si trovano i traditori dei congiunti. Due di essi appaiono a tal punto vicini che i loro capelli si confondono: sono i fratelli Napoleone ed Alessandro degli Alberti che l’odio di parte e motivi d’interesse inimicarono a tal punto da portarli ad uccidersi l’un l’altro. Nella seconda zona, detta Antenora, nella quale sono puniti i traditori della patria, Dante colpisce col piede una delle teste che emergono dalla superficie ghiacciata. Il dannato chiede con asprezza il motivo di tanta crudeltà: « Se non lo fai a ragion veduta, al fine di accrescere la punizione inflittami a causa di Montaperti, perché infierisci contro di me? » A tali parole Dante domanda al peccatore di rivelargli il suo nome e gli promette, in cambio, fama tra i vivi. Ma è desiderio del traditore proprio quello di non essere ricordato, per cui intima duramente al Poeta di non importunarlo. Dante allora, afferratolo per i capelli, gliene strappa diverse ciocche, senza che per questo il dannato acconsenta a dichiarare il proprio nome. E’ un suo compagno di pena che appaga il desiderio del pellegrino: il traditore è Bocca degli Abati, colui che a Montaperti recise con un colpo di spada la mano del portainsegna della cavalleria fiorentina. Allontanatisi da Bocca, i poeti scorgono due dannati confitti in una medesima buca, in modo che la testa di uno sovrasta, come cappello, quella dell’altro. A colui che rode, come per fame, il cranio del suo compagno di pena, Dante rivolge la preghiera di manifestare la causa di un accanimento così disumano, promettendo che, tornato nel mondo dei vivi, rivelerà il misfatto resosi a tal punto meritevole di odio.

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CANTO XXXIII

Confitti nel ghiaccio dell’Antenora Dante incontra due dannati e interpella colui che rode rabbiosamente la nuca del suo compagno di pena (fine del canto XXXII). E’ Ugolino della Gherardesca che, già potentissimo a Pisa, fu fatto prigioniero dal Ghibellini e fu lasciato morire di fame insieme a due figli e a due nipoti. L’altro è l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, alla cui frode e alla cui crudeltà egli dovette la cattura e la fine orribile. Traditori ambedue (il conte Ugolino era accusato di avere consegnato a Lucca ed a Firenze alcuni castelli pisani), scontano la colpa nello stesso luogo, ma le loro pene non sono certo pari: Ruggieri oltre al tormento del gelo eterno ha quello che gli infligge la rabbia del suo nemico; per Ugolino al dramma della dannazione si aggiunge l’ira e la sete inesausta di vendetta contro il suo nemico. Solo la cattura, la prigionia, la morte inflitta in forma orrenda a lui e ai quattro giovani innocenti occupano l’animo di Ugolino; le vicende culminate in quella tragedia sono troppo note perché sia necessario ricordarle. Lo sdegno che la narrazione di Ugolino accende nel Poeta lo fa prorompere in una fiera invettiva contro Pisa. Nella terza zona di Cocito, la Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, Dante e Virgilio trovano il faentino Alberigo dei Manfredi, che invitò a banchetto alcuni consanguinei per ucciderli. Il dannato spiega a Dante, meravigliato perché sapeva Alberigo ancora nel mondo dei vivi, che per una legge propria della Tolomea egli è all’inferno solo con l’anima, mentre il suo corpo sulla terra è governato da un demonio. Nella medesima condizione è anche il genovese Branca d’Oria, reo di avere ucciso il suocero Michele Zanche mediante una frode dello stesso genere. Il canto si conclude con una dura invettiva di Dante contro i Genovesi.

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CANTO XXXIV

Dante e Virgilio entrano nella quarta zona di Cocito, chiamata Giudecca, dove soffrono coloro che tradirono i loro benefattori. Qui nessuna delle anime dannate parla, nessuna e’ identificata: imprigionate totalmente nel ghiaccio, si possono appena intravedere, immobili nelle più diverse posizioni: supine, ritte in piedi, capovolte, piegate ad arco. Nell’aria opaca che grava sulla palude gelata comincia a delinearsi un’enorme sagoma, come un mulino le cui pale girino nel vento: è la mole gigantesca di Lucifero piantato fino a mezzo il petto nella palude. Il re dell’inferno ha tre facce, quella anteriore è rossa, quella sinistra è nera e quella destra è gialla; le tre bocche maciullano senza posa tre peccatori, che tradirono le due supreme autorità, la spirituale e la temporale: Giuda, Bruto e Cassio; Giuda, per maggiore tormento, è straziato di continuo dagli artigli del mostro. Agitando le sue tre paia d’ali di pipistrello Lucifero genera il vento che fa ghiacciare Cocito. Ormai i due poeti hanno visto tutto l’inferno ed è tempo di uscire; Dante si avvinghia al collo di Virgilio che scende aggrappandosi ai peli di Lucifero nello spazio tra il corpo villoso di Satana e il ghiaccio che lo imprigiona. Giunto al centro del corpo del mostro (corrispondente al centro della terra) Virgilio si capovolge e prosegue con il suo discepolo attraverso una stretta galleria, mentre Dante gli chiede alcune spiegazioni, finché giungono alla superficie della terra.

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PURGATORIO


CANTO I

Dante e Virgilio, usciti dalla voragine infernale attraverso la natural burella, si trovano sulla spiaggia di un'isola situata nell'emisfero antartico, nella quale si innalza la montagna del purgatorio. Inizia il secondo momento del viaggio di Dante nell'oltretomba, durante il quale argomento del suo canto sarà la purificazione delle anime prima di salire in paradiso: necessaria è perciò la protezione delle Muse, che egli invoca prima che la sua poesia affronti il tema dell'ascesa alla beatitudine eterna. L'alba è prossima e i due pellegrini procedono in un'atmosfera ormai limpida e serena; dove brillano le luci delle quattro stelle che furono viste solo da Adamo ed Eva prima che fossero cacciati dal paradiso terrestre, situato per Dante sulla vetta del monte del purgatorio. Volgendo lo sguardo verso il polo artico Dante scorge accanto a sé la figura maestosa di un vecchio: è Catone Uticense, che Dio scelse a custode del purgatorio. Poiché egli li crede due dannati fuggiti dall'inferno, Virgilio spiega la loro condizione e prega che venga loro concesso di entrare nel purgatorio, promettendo a Catone di ricordarlo alla moglie Marzia, che si trova con Virgilio nel limbo. Ma, risponde il veglio, una legge divina separa definitivamente le anime dell'inferno da quelle ormai salve; del resto non è necessaria nessuna lusinga, dal momento che il viaggio è voluto da una donna del ciel. Infine ordina a Virgilio di cingere Dante con un giunco (simbolo d'umiltà) e di detergergli il volto da ogni bruttura infernale. I due pellegrini si avviano verso la spiaggia del mare per compiere i due riti prescritti da Catone.

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CANTO II

L'aurora sorge sull'orizzonte del purgatorio mentre i due pellegrini sostano, pensosi ed incerti del cammino, lungo la riva del mare. All'improvviso appare lontano, sulle acque, una luce rosseggiante che si avvicina velocemente alla spiaggia: Virgilio riconosce l'angelo nocchiere del purgatorio ed esorta il discepolo ad inginocchiarsi in segno di omaggio. L'uccel divino giunge su una veloce navicella ché trasporta più di cento anime, le quali, ad una voce, cantano il salmo "In exitu Israel de Aegypto". Dopo averle benedette con il segno di croce, l'angelo riparte lasciando sulla spiaggia le anime, le quali chiedono consiglio a Dante e Virgilio sul cammino da intraprendere. Allorché si accorgono che Dante è vivo, grande è la loro meraviglia, finché una di esse, che aveva tentato di abbracciare il Poeta, viene da questo riconosciuta: è l'anima di Casella, un musico e cantore amico di Dante. Dopo avere spiegato ché le anime destinate al purgatorio si raccolgono alle foci del Tevere in attesa dell'angelo nocchiere, su preghiera dell'amico, che ricorda quanto fosse per lui rasserenante il suo canto, Casella intona una canzone del Convivio. Tutti ascoltano intenti, ma Catone li scuote, rimproverando questo indugio nell'espiazione dei loro peccati. Le anime e i due pellegrini si dirigono correndo verso il monte come colombi spaventati da un rumore improvviso.

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CANTO III

Dopo il rimprovero di Catone, mentre Dante e Virgilio si avviano verso il monte, il poeta latino in una lunga esortazione invita gli uomini ad accettare il mistero di cui avvertono l'esistenza: i saggi antichi che vollero spiegarlo, scontano ora nel limbo il loro folle desiderio. Mentre sostano ai piedi dell'erta. parete rocciosa, compare una schiera che avanza lentamente e verso la quale essi si dirigono, per chiedere informazioni. Sono le anime di coloro ché morirono nella scomunica della Chiesa, pentendosi solo in fine dì vita, e che devono restare fuori della porta del purgatorio, nella zona chiamata antipurgatorio, trenta volte il tempo durante il quale vissero scomunicati. Esse invitano i due pellegrini, a procedere davanti a loro, verso destra, mentre una si rivolge direttamente al Poeta: è lo spirito di Manfredi di Svevia, morto nella battaglia di Benevento nel 1266. Egli prega Dante di riferire alla figlia Costanza la vera storia della sua morte; ricevute le due ferite che ancora deturpano la sua figura, si affidò pentendosi, prima di morire, alla misericordia divina. Ebbe dapprima sepoltura sotto un cumulo di sassi, secondo l'uso guerriero, ma i suoi nemici guelfi; e in particolare il vescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, legato del papa Clemente IV, vollero disseppellire il suo corpo e lo abbandonarono fuori del territorio della Chiesa (dove gli scomunicati non potevano essere sepolti), lungo le rive Garigliano. Chiede infine che Costanza preghi per lui, perché le preghiere dei vivi aiutano ed abbreviano il tempo della purificazione.

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CANTO IV

Più di tre ore sono trascorse dall'apparizione dell'angelo nocchiero quando Dante e Virgilio, in seguito all'indicazione delle anime degli scomunicati, iniziano la salita lungo uno stretto sentiero, la cui ripidità è tale che solo il grande desiderio di purificazione può aiutare a percorrerlo. Durante l'ascesa Dante può rendersi conto, meglio che non quando si trovava ancora lungo la spiaggia, dell'altezza e dell'asperità del monte del purgatorio: ha un momento di scoraggiamento, dal quale il maestro lo scuote esortandolo a raggiungere un ripiano sul quale potranno riposare. Qui giunti, Virgilio spiega al discepolo perché i raggi del sole nel purgatorio provengono da sinistra, mentre nell'emisfero artico chi guarda verso levante vede il sole salire nel cielo alla sua destra. Ma Dante teme l'altezza del monte e Virgilio lo rassicura: l'ascesa è difficile solo all'inizio, quando si è ancora sotto il peso del peccato, poi si presenterà man mano sempre più facile ed agevole. Non appena il poeta latino termina di parlare, si leva improvvisamente una voce verso la quale i due pellegrini si dirigono, finché si trovano davanti a una grande roccia alla cui ombra giacciono le anime dei negligenti, che, per pigrizia, si pentirono solo all'estremo della vita e che, per questo, devono restare nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. Chi ha parlato è il fiorentino Belacqua, che Dante conobbe e con il quale il Poeta stabilisce un affettuoso colloquio finché Virgilio gli ingiunge di proseguire il cammino.

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CANTO V

I due pellegrini, procedendo sempre nell'antipurgatorio, lasciano la schiera delle anime negligenti, una delle quali, mostrando vivacemente la sua meraviglia nell'accorgersi che Dante è vivo, fa volgere il Poeta, che rallenta il suo passo. Virgilio lo invita a non perdere di vista la propria meta, consacrando ad essa tutte le energie. Intanto lungo la costa del monte avanza, cantando il salmo «Miserere», un gruppo di anime, che notano subito l'ombra proiettata dal corpo di Dante: due di esse, come messaggeri, si accostano ai poeti per chiedere spiegazioni intorno alla loro condizione e infine tutta la schiera si lancia verso di loro in una corsa senza freno. Sono coloro che furono uccisi con la violenza e che si pentirono solo all'ultimo istante di vita: ora chiedono preghiere per affrettare la purificazione. Nella seconda parte del canto tre di queste anime narrano come avvenne la loro morte: Jacopo del Cassero fu ucciso dai sicari di Azzo VIII d'Este, signore di Ferrara, del quale era stato fiero avversario; il ghibellino Bonconte da Montefeltro scomparve durante la battaglia di Campaldino e le potenze infernali, non avendo potuto impadronirsi della sua anima, si vendicarono sul suo corpo, suscitandogli contro le forze della natura, che trascinarono il cadavere di Bonconte nell'Arno, dove fu coperto dai detriti del fiume; Pia dei Tolomei fu fatta uccidere dal marito.

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CANTO VI

Le anime dei morti violentemente si stringono, per chiedere suffragi, intorno a Dante, che ha ripreso il suo cammino e che riconosce fra di loro molti noti personaggi del suo tempo. La richiesta di preghiere da parte dei penitenti provoca un dubbio nel Poeta, il quale ha presente l'affermazione da Virgilio fatta nell'Eneide circa l'inutilità della preghiera per mutare un decreto divino: ma, spiega il maestro, vana è solo la supplica non rivolta al vero Dio, mentre nel mondo cristiano essa, con il suo ardore; può muovere a misericordia la volontà celeste. Virgilio poi si accosta a un'anima isolata dalle altre perché venga loro indicata la via migliore per salire: ma quella risponde chiedendo notizie della patria e della vita dei due pellegrini. Non appena Virgilio pronuncia il nome di Mantova, l'ombra si protende verso di lui, rivelandosi: « lo sono Sordello e sono della tua stessa terra » e abbracciandolo. Dante di fronte a questa manifestazione di amore patrio inizia una violenta invettiva contro l'Italia, i cui cittadini hanno dimenticato ogni virtù e ogni concordia, combattendosi come nemici. Invano Giustiniano ha riorganizzato le leggi della vita civile, se la Chiesa, intervenendo in campo politico, impedisce all'imperatore di governare. Del resto gli ultimi imperatori, presi dai problemi della Germania, non si sono più curati né dell'Italia né della città imperiale per eccellenza, Roma. L'apostrofe termina con la visione di Firenze dilaniata dalle lotte interne e incapace di darsi uno stabile governo.

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CANTO VII

Sordello, dopo il primo momento di commozione nell'udire il nome della patria, vuole notizie precise sui due pellegrini: Virgilio risponde rivelando la propria identità al poeta mantovano, che si rivolge allora a lui chiamandolo gloria de' Latin. Dopo aver spiegato che il loro viaggio è permesso da Dio e che egli proviene dal limbo, Virgilio chiede la strada più breve per giungere al vero purgatorio, ma Sordello ricorda che la legge del mondo della penitenza vieta di salire il monte durante la notte. Occorrerà cercare un luogo dove attendere l'alba. I tre poeti si avviano verso la "valletta fiorita", dove si trovano i principi negligenti; coloro che, troppo presi dalle cure mondane, si pentirono solo alla fine della vîta. Circondati da una natura splendente di fiori e di profumi, essi cantano l'inno "Salve, Regina", mentre Sordello, rimanendo sull'orlo della valle, indica ai due pellegrini i personaggi più noti: l'imperatore Rodolfo d'Asburgo, al quale Dante rivolge l'accusa di avere trascurato la situazione politica italiana, Ottocaro II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d'Aragona con il figlio Pietro, Carlo I d'Angiò, Arrigo III d'Inghilterra, Guglielmo VII di Monferrato. Sottolinea infine la degenerazione dei loro discendenti, perché raramente la virtù si tramanda di padre in figlio, volendo Dio che tutti capiscano che essa non si riceve per eredità, ma proviene direttamente dal cielo.

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CANTO VIII

Mentre scende il crepuscolo una delle anime della "valletta fiorita" intona l'inno « Te lucis ante terminum », subito seguita da tutte le altre, che volgono i loro occhi verso il cielo. Dante, seguendo la direzione di quello sguardo, scorge due angeli splendenti che si dirigono verso l'orlo della valle, ciascuno con una spada fiammeggiante e priva della punta. Sordello, dopo avere spiegato ai due pellegrini che essi provengono dal cielo per difendere quel gruppo di penitenti dall'assalto del demonio che fra poco li tenterà, invita Dante e Virgilio a scendere in mezzo ai principi. Un'anima osserva fissamente il Poeta: è il pisano Nino Visconti, al quale egli fu legato da affettuosa amicizia. A lui Dante rivela di essere ancora vivo, suscitando l'attonito stupore di tutte le anime, mentre Nino invita uno dei principi ad avvicinarsi ai due pellegrini, per osservare da vicino quel prodigio; poi, rivolto all'amico, lo prega di ricordarlo alla figlia Giovanna, dal momento che troppo presto la moglie si è dimenticata di lui, passando a seconde nozze. Ad un certo momento Sordello indica a Virgilio il serpente tentatore che avanza nella valle, ma i due angeli, calando come sparvieri, lo mettono in fuga. Parla poi l'ombra che Nino aveva chiamato accanto a sé. È Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che chiede notizie della sua famiglia, offrendo a Dante l'occasione di esaltarne la liberalità e la prodezza. Il canto si chiude con la solenne profezia dell'esilio del Poeta fatta dal Malaspina.

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CANTO IX

Al termine del primo giorno di viaggio nel secondo regno, Dante si addormenta nella "valletta" dei principi. Poco prima dell'alba, quando i sogni, secondo una credenza medievale, sono piú veritieri, al Poeta appare la visione di un'aquila dalle penne d'oro che scende improvvisa su di lui, trasportandolo nella sfera del fuoco, posta tra la sfera dell'aria e il cielo della luna, dove entrambi bruciano in un unico, grande fuoco. Destatosi pieno di paura, viene rassicurato da Virgilio, il quale gli rivela che durante il sonno era sopraggiunta una donna, Lucia, che aveva trasportato Dante dalla "valletta", dove erano rimaste tutte le altre anime, alla porta del purgatorio propriamente detto. I due pellegrini scorgono, sull'ultimo dei tre gradini che portano all'ingresso, un angelo splendente, armato di una spada, il quale rivolge loro la parola per chiedere che cosa vogliono e quale è stata la loro guida. Poiché (uguale fu la risposta a Catone) è stata una donna del ciel a condurli, l'angelo li invita a salire i tre gradini, dei quali il primo è bianco, il secondo quasi nero, il terzo rosso, ad indicare i successivi momenti del sacramento della confessione. A Dante, che si era inginocchiato, l'angelo incide sulla fronte sette P, come simbolo dei sette peccati capitali che dovrà espiare in ciascuna delle sette cornici del purgatorio. Dopo aver loro spiegato la funzione delle due chiavi, una gialla e una bianca, che ha ricevuto da San Pietro, apre la porta: si ode dapprima un suono cupo, che si trasforma poi nel canto dell'inno « Te Deum laudamus ».

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CANTO X

Dopo essere entrati nel purgatorio propriamente detto, Dante e Virgilio iniziano una dura salita attraverso un sentiero stretto e ripido, che li conduce infine su un ripiano deserto, dove la parete del monte appare di marmo bianco, adorno di artistici bassorilievi. Sono rappresentati esempi di umiltà, che le anime dei superbi, i penitenti di questa prima cornice o girone, devono meditare prima di quelli di superbia punita, che appariranno scolpiti sul pavimento. La prima scultura presenta l'arcangelo Gabriele che annuncia la nascita di Cristo alla Vergine, la quale sembra rispondere con le stesse parole del testo evangelico: «Ecce ancilla Dei». Il secondo esempio ricorda un episodio biblico, il trasporto dell'arca santa ordinato, da Davide, che precede la solenne processione cantando e ballando in segno di umile gioia. L'ultima scena è tratta dal mondo romano e riprende una leggenda molto diffusa nel Medioevo, l'incontro di Traiano e della vedova che invoca da lui giustizia contro gli uccisori del figlio prima che egli parta per la guerra: alla fine l'imperatore, riconoscendo giusta questa richiesta, accontenta la donna. Mentre Dante è ancora intento ad osservare queste opere, create direttamente dalla mano di Dio, avanza verso di loro una schiera di anime oppresse da pesanti massi: sono coloro che in vita si abbandonarono alla superbia, contro la quale il Poeta prorompe in una fiera invettiva.

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CANTO XI

Nel primo girone, dove si sconta il peccato di superbia, i penitenti recitano la preghiera del « Pater Noster », invocando l'aiuto di Dio per sé e per coloro che sono rimasti sulla terra. A Virgilio, che ha chiesto la strada più breve per giungere al passaggio che porta al secondo girone, risponde una delle anime, che, in un secondo tempo, rivela di essere Omberto Aldobrandeschi, appartenente ad una delle più note famiglie nobili della Toscana: l'orgoglio per l'antichità della sua stirpe e la grandezza delle azioni dei suoi antenati gli fecero dimenticare che la terra è la madre comune di tutti, spingendolo a disprezzare il suo prossimo. Intanto un altro penitente, girandosi con penosa fatica sotto il masso che lo opprime, riconosce Dante, che ritrova così, nella prima cornice, l'amico Oderisi da Gubbio, famoso miniatore del tempo, Dopo avere ricordato che la sua fama è ora stata oscurata da un altro artista, il bolognese Franco, Oderisi enuncia una legge alla quale nessuno si può sottrarre: vana è la gloria alla quale gli uomini tendono con tutte le loro forze, perché essa scompare subito se non è seguita da un periodo di decadenza. Così nella pittura Giotto ha sostituito Cimabue, e nella poesia Guido Cavalcanti è ora più famoso di Guido Guinizelli, ed è forse già nato chi sovrapporrà la sua alla loro voce. Un altro esempio storico della brevità del mondan romore è offerto dalla vicenda di Provenzano Salvani, un tempo signore di Siena e ora pressoché dimenticato. Il canto si chiude con il ricordo di una grande azione di umiltà compiuta da Provenzano per salvare la vita di un amico.

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CANTO XII

In seguito all'invito del maestro, Dante, che finora aveva camminato al fianco di Oderisi, lascia la schiera dei superbi e procede oltre, osservando sul pavimento del primo girone numerosi bassorilievi, che rappresentano esempi di superbia punita e nei quali gli episodi sono presi alternativamente dal mondo ebraico-cristiano e da quello pagano: da Lucifero, che dopo il suo atto di ribellione precipita dal cielo, alla città di Troia, che a causa dell'orgogliosa superbia dei suoi cittadini fu dagli dei punita con la distruzione totale. Dopo aver ammirato l'arte somma con la quale le raffigurazioni sono state eseguite, Dante rimprovera con durezza la superbia degli uomini, che impedisce loro di vedere il male che compiono. I due pellegrini continuano il cammino, finché appare loro, splendente di luce, l'angelo dell'umiltà, che indica la scala per accedere al secondo girone, cancellando dalla fronte di Dante il primo dei sette P incisi dall'angelo guardiano alla porta del purgatorio, e intonando, mentre i poeti salgono una ripida scala, la prima delle beatitudini: "Beati pauperes spiritu!" Poiché Dante avverte meno fatica di prima, chiede spiegazione di questo fatto al maestro: man mano che egli avanza nel regno della penitenza, dice Virgilio, la volontà di purificazione aumenta e scompare ogni senso di difficoltà e di pena; ma il Poeta, per essere sicuro che il primo P è scomparso, ha bisogno di toccare la sua fronte, quasi incredulo di tanto miracolo.

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CANTO XIII

Nel secondo girone, dove sono punite le anime degli invidiosi, i due pellegrini odono gridare, da voci misteriose che attraversano l'aria, tre esempi di carità: il miracolo di Cristo alle nozze di Cana, l'amicizia profonda che legava due famosi eroi greci. Oreste e Pilade, il comando evangelico all'amore fraterno. I penitenti, addossati a una nuda parete e coperti da ruvidi manti, si sorreggono gli uni alle spalle degli altri: i loro occhi appaiono chiusi, cuciti da un filo di ferro che impedisce loro di scorgere la luce del ciel. Dante, che teme di mostrarsi scortese passando dinanzi alle anime senza rivelare la sua presenza, chiede se in mezzo a loro c'è qualche italiano: ma, risponde una voce, ogni uomo ha una sola patria., che è quella celeste. Dante avanza verso l'ombra che ha parlato per conoscerne il nome o il luogo di nascita; appare così la figura della nobildonna senese Sapia, la quale confessa il suo peccato di invidia, che la portò a gioire più del male altrui che del proprio bene personale, spingendola a chiedere a Dio anche la rovina della sua patria. Alla fine della vita si convertì, ma solo le preghiere di un umile venditore di pettini della sua città le evitarono una lunga sosta nell'antipurgatorio. Durante il colloquio con Sapia, che non rinuncia a colpire, anche nell'al di là, con dura ironia i suoi concittadini, il Poeta riconosce che il suo animo è occupato non tanto dal peccato di invidia, quanto da quello della superbia, che egli sconterà sotto il peso dei macigni del primo girone.

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CANTO XIV

Il secondo canto dedicato agli invidiosi si apre con un dialogo fra le anime di due nobili romagnoli, vissuti nel secolo XIII, Guido del Duca e Rinieri da Calboli. Il primo, avendo notato che Dante è ancora vivo, lo prega di rivelargli la patria e il nome: il Poeta, per mezzo di una lunga perifrasi, spiega che la sua città di nascita è situata lungo le rive di un fiumicel che per mezza Toscana si spazia, ma tace il suo nome che non è ancora sufficientemente conosciuto. Guido del Duca pronuncia contro gli abitanti delle località (il Casentino e le città di Arezzo, Firenze e Pisa) percorse dall'Arno una dura requisitoria, accusandoli di avere abbandonato ogni virtù e, di avere trasformato la valle del fiume in un covo di malizia. Per sottolineare la gravità della degenerazione dilagante in questi luoghi, il romagnolo inizia una fosca predizione intorno al nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, che tiranneggerà la città di Firenze spargendovi il terrore. Dopo aver confessato il proprio peccato e dopo aver rivolto una breve apostrofe all'umanità che si lascia traviare dall'invidia, Guido, nell'ultima parte del suo discorso, ricordata la corruzione presente della Romagna, rievoca con nostalgia e rimpianto il tempo passato, nel quale le virtù, il valore e la cortesia guidavano la vita di ciascuno. Quando i pellegrini riprendono il viaggio, voci misteriose ricordano due esempi di invidia punita.

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CANTO XV

Mancano tre ore al tramonto del sole e i due pellegrini procedono sempre nel secondo girone, allorché una luce improvvisa colpisce con particolare intensità gli occhi di Dante: appare l'angelo guardiano del terzo girone, quello degli iracondi, il quale indica ai due poeti la scala per salire, e li accompagna con il canto di « Beati misericordes » e « Godi tu che vinci! ». Dante, per mettere a profitto il tempo del cammino, chiede al maestro chiarimenti intorno all'uso dei due termini, divieto e consorte, fatto da Guido del Duca nel canto precedente. Ha inizio una lunga spiegazione filosofica, nella quale Virgilio dimostra che l'invidia nasce dall'amore dei beni terreni, mentre coloro che ormai hanno conquistato, in paradiso, quelli spirituali, sono uniti da un profondo affetto reciproco, nel quale si riflette l'infinita carità di Dio verso le sue creature. Giunti nel terzo girone, appaiono in visione a Dante tre scene di mansuetudine:- il ritrovamento di Gesù nel tempio mentre discute con i dottori, l'episodio che ha per protagonisti il tiranno Pisistrato e la moglie, la lapidazione di Santo Stefano. Il canto termina con un'esortazione di Virgilio al discepolo, affinché questi, dopo essersi riscosso dalle visioni, affretti il suo passo, mentre avanza sempre più verso di loro un denso fumo, quello che avvolge le anime degli iracondi.

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CANTO XVI

Il terzo girone appare avvolto da un fumo densissimo e acre, che circonda le anime degli iracondi, secondo una evidente legge di contrappasso. Dante, che avanza guidato da Virgilio, ode la preghiera dell' "Agnus Dei", che viene recitata in armonico accordo da tutti i penitenti, uno dei quali si rivolge improvvisamente al Poeta, essendosi accorto che egli si comporta come un vivo: è Marco Lombardo, il quale dichiara la sua profonda conoscenza del bene e del male degli uomini e il suo amore per la virtù. Poiché Marco ha ricordato la corruzione morale che si è diffusa nel mondo, Dante chiede che gli venga risolto un dubbio nato in lui durante il colloquio con Guido del Duca: il male che dilaga sulla terra è dovuto a malefici influssi degli astri o all'azione umana? Attraverso una lunga esposizione, Marco dimostra che i cieli muovono nell'uomo gli istinti, ma nulla possono contro la ragione e la libera volontà di cui egli è dotato e che dipendono direttamente da Dio, loro creatore. Perciò la causa del male risiede negli uomini stessi: infatti l'anima, che esce dalle mani di Dio senza nulla conoscere, viene attirata solo da ciò che dà gioia e incomincia a seguire i beni terreni, se non è frenata da una guida (l'imperatore e le leggi che egli ha il compito di far osservare). Ma l'intervento in campo temporale della Chiesa ha provocato una confusione di poteri che è all'origine dell'attuale degenerazione, la quale è particolarmente avvertibile nell'Italia settentrionale, dove pochi sono i rappresentanti rimasti della nobile generazione passata.

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CANTO XVII

A Dante, uscito con Virgilio dal denso fumo che avvolge le anime degli iracondi, mentre è ormai prossimo il tramonto, compaiono in visione tre esempi di ira punita, che gli presentano per prima la vicenda di Progne, mutata in uccello per aver imbandito al marito le carni del figlio in un eccesso di folle gelosia. Appare poi la figura di Aman, ministro del re persiano Assuero, che f u crocifisso dopo aver tramato la distruzione totale degli Ebrei, contro cui era adirato, e subito dopo Dante vede Lavinia che piange sul cadavere della madre Amata, suicidatasi in un impeto d'ira, per non vedere la figlia andare in sposa ad Enea. Scomparse all'improvviso queste visioni. il Poeta ode la voce dell'angelo della pace che indica la strada per salire al quarto girone e che gli cancella dalla fronte la terza P, cantando la beatitudine evangelica «Beati pacifici ». Frattanto i due pellegrini giungono sul ripiano deserto della quarta cornice, e Virgilio, in seguito a una domanda precisa del discepolo, spiega le caratteristiche del peccato che, lì viene espiato, l'accidia. L'ultima parte del canto è occupata dall'esposizione, da parte del poeta latino, della dottrina dell'amore nella sua duplice forma - naturale (o istintivo) e voluto con libera scelta dalla volontà e dall'intelletto - e della struttura morale del purgatorio.

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CANTO XVIII

Virgilio, sempre rimanendo nel quarto girone, continua la trattazione del tema dell'amore per chiarire al suo discepolo in che modo questa affezione possa essere inizio di ogni bene e di ogni male. L'animo per natura è disposto all'amore, e ogni volta che la facoltà conoscitiva gli presenta una cosa piacevole, si dirige verso di essa: questa inclinazione è amore. Nasce tuttavia, in Dante un dubbio intorno alla libertà dell'uomo, guidato da impulsi che vengono dall'esterno e spinto da forze naturali; non soggette alla sua volontà. Ma Virgilio afferma che nella creatura umana agisce anche la ragione, che ha il compito di studiare, scegliere e guidare le tendenze naturali. Intanto la luna è già comparsa nel cielo e Dante, preso da improvvisa sonnolenza, viene riscosso dal sopraggiungere di una turba di anime che avanzano in corsa affannosa: sono gli accidiosi, che per contrappasso devono ora mostrare lo zelo che non ebbero in vita. Gli esempi di sollecitudine, che ricordano la visita della Vergine ad Elisabetta e la fulminea rapidità delle imprese militari di Cesare; sono gridati da due anime, come quellî di accidia punita, anch'essi ispirati dal mondo ebraico-cristiano e da quello romano. Dante in questo girone presenta un solo penitente: l'abate del monastero veronese di San Zeno, che rimprovera ad Alberto della Scala di aver ora concesso quella carica ad un figlio degenere.

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CANTO XIX

Dante si trova nella cornice degli accidiosi allorché, mentre l'alba è ormai prossima, riceve in sogno una visione: gli appare l'immagine di una donna deforme, che in un secondo tempo si trasforma, agli occhi del pellegrino, in una bellissima sirena, che cerca di attirarlo con il fascino del suo canto. Ma un'altra figura femminile, comparsa all'improvviso a fianco del Poeta, rivela il male nascosto in quella femmina balba, riscuotendo Dante dal suo sonno. I due pellegrini possono così riprendere il cammino, guidati verso il passaggio che porta al girone superiore dalla voce dell'angelo del quarto girone, che assolve Dante dal peccato di accidia. Subito dopo Virgilio spiega al discepolo che la mostruosa apparizione del sogno era simbolo dei peccati di avarizia, gola e lussuria, che vengono espiati negli ultimi tre gironi del purgatorio. Nella quinta cornice, dove le anime degli avari giacciono bocconi a terra, legate nelle mani e nei piedi, Dante incontra l'ombra di Ottobuono dei Fieschi, che fu papa col nome di Adriano V: dopo aver rivelato al pellegrino la sua dignità di un tempo, il pontefice confessale proprie colpe, dichiarando però di essersi convertito subito dopo essere asceso alla cattedra di Pietro; solo allora, infatti, comprese che nessun possesso terreno può placare la sete di conquista dell'uomo e che la vera felicità è data solo dai beni spirituali.

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CANTO XX

Poiché l'anima di Adriano V lo ha esortato a proseguire il cammino, Dante procede accanto alla sua guida, badando a non calpestare le anime degli avari e dei prodighi distese bocconi a terra. Dopo aver apostrofato duramente il peccato di avarizia, fonte di tanto male, il Poeta ode una voce che ricorda piangendo tre esempi, due di povertà e uno di liberalità: quello della Vergine, quello del console romano Fabrizio, quello del vescovo di Bari, San Nicola. L'anima che ha parlato è quella di Ugo Capeto, iniziatore della dinastia francese dei re capetingi, il quale apre una durissima requisitoria contro i suoi discendenti colpevoli della corruzione dilagante nel mondo: Carlo I d'Angiò, che provocò la morte di Corradino di Svevia e di San Tommaso d'Aquino, Carlo di Valois, che concorse ad aumentare la lotta e i disordini interni di Firenze, Carlo II d'Angiò, che diede in sposa la giovanissima figlia Beatrice ad Azzo VIII d'Este in cambio di una somma di denaro, Filippo il Bello, che f u responsabile del triste episodio dì Anagni ai danni di Bonifacio VIII, oltre che della persecuzione contro l'ordine cavalleresco dei Templari, sono gli esempi più famosi, e più vicini nel tempo, della politica francese guidata solo dalla violenza e dalla cupidigia. Infine Ugo Capeto rivela che i penitenti del quinto girone durante il giorno recitano esempi di povertà e di liberalità, mentre durante la notte rievocano esempi di avarizia punita. Allorché Dante e Virgilio si sono allontanati da Ugo Capeto, un terremoto scuote all'improvviso il monte del purgatorio, mentre tutte le anime intonano il canto del « Gloria in excelsis Deo».

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CANTO XXI

Dante prosegue il viaggio nel quinto girone, ma è tutto preso dal desiderio di conoscere la causa del terremoto che ha scosso il monte del purgatorio e del canto del «Gloria » che le anime hanno innalzato subito dopo. All'improvviso compare alle spalle dei due pellegrini un'ombra che rivolge loro un augurio di pace: a quest'anima Virgilio chiede spiegazione dei fatti misteriosi prima avvenuti. Il monte del purgatorio - spiega quello spirito è soggetto a leggi ben precise, diverse da quelle che regolano la vita della natura sulla terra, perché, al di sopra dei tre gradini sui quali si apre la porta del mondo della penitenza, non si formano più grandine, neve, rugiada, brina, nuvole, lampi, arcobaleni, né tanto meno, terremoti. Il monte del purgatorio viene scosso solo in una occasione: quando una anima ha compiuto la sua purificazione ed è diventata degna di entrare in paradiso; contemporaneamente tutti gli spiriti penitenti ringraziano Dio con il canto del «Gloria». L'ombra, a una domanda di Virgilio, rivela finalmente il suo nome: è Stazio, il famoso poeta latino, autore della Tebaide e della Achilleide, vissuto nel I secolo d. C. Subito dopo aver spiegato che a Roma ebbe la consacrazione a poeta, Stazio inizia una commossa esaltazione di Virgilio e della sua opera, affermando che l'Eneide non solo alimentò ed educò il suo spirito poetico, ma ne f u anche mamma: ignaro di essere davanti a colui che considera il suo maestro, dichiara che egli acconsentirebbe a restare un anno di più nel purgatorio, pur di essere vissuto al tempo del grande mantovano. Dopo queste parole Dante, vincendo l'umiltà e la ritrosia di Virgilio, rivela il nome della sua guida.

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CANTO XXII

Virgilio interroga Stazio mentre, in compagnia di Dante, stanno salendo verso il sesto girone. Vuole sapere il motivo per il quale un'anima di grande nobiltà, come la sua, può essersi macchiata della colpa dell'avarizia. In realtà l'autore della Tebaide e dell'Achilleide è rimasto più di cinquecento anni nel quinto girone per essere caduto nel vizio contrario, in quello della prodigalità: infatti - chiarisce Stazio - nel purgatorio vengono puniti nello stesso luogo i due tipi opposti di peccato. La seconda spiegazione richiesta da Virgilio riguarda il modo nel quale avvenne la conversione di Stazio dal paganesimo al cristianesimo. Un passo delle Bucoliche virgiliane, che accennava al rinnovamento del mondo, coincideva con il messaggio della nuova fede che veniva diffusa dovunque proprio in quel tempo; questo fatto spinse Stazio ad avvicinare i predicatori cristiani, che, con la santità della loro vita, lo convinsero ad abbandonare ogni altra posizione religiosa o filosofica per diventare cristiano attraverso il battesimo. Tuttavia, per timore delle persecuzioni, tenne sempre nascosta la sua conversione: per questo motivo dovette rimanere più di quattrocento anni nel girone degli accidiosi. Infine è Stazio che interroga Virgilio, per sapere in quale cerchio dell'inferno si trovano alcuni poeti latini. Il cammino dei tre viandanti continua finché essi incontrano, posto in mezzo alla strada, un albero carico di frutti odorosi, dalle cui fronde una voce ignota grida alcuni esempi di temperanza.

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CANTO XXIII

La schiera delle anime dei golosi procede nel sesto girone cantando un versetto del Salmo L, "Labia mea, Domine". L'aspetto di questi penitenti è tale da suscitare in Dante la più profonda compassione: nel volto pallidissimo spiccano, profondamente incavate, le orbite degli occhi, il corpo appare di una magrezza spaventosa, tanto che la pelle, disseccata e squamosa, modella il loro scheletro. Mentre il Poeta sta cercando di individuare la causa di tanta magrezza, un'anima lo riconosce e lo interroga: è Forese Donati, l'amico più caro durante il periodo della vita dissoluta di Dante. Dalla sua voce il pellegrino viene a sapere la causa del dimagrimento delle anime dei golosi. Il Poeta tuttavia si stupisce di trovare l'amico, morto da appena cinque anni, già nel purgatorio vero e proprio, senza alcuna lunga sosta nell'antipurgatorio fra le anime che si pentirono solo alla fine della vita. Ad accelerare la sua ascesa sul monte della penitenza furono le preghiere di Nella, la sua dolce sposa, che Forese ora ricorda con amore, contrapponendone la virtù alla corruzione delle sfacciate donne fiorentine,- per le quali aggiunge lo spirito penitente - il cielo già prepara durissime punizioni. Dante, per soddisfare un'affettuosa preghiera dell'amico, rivela che solo da pochi giorni egli ha lasciato la vita viziosa alla quale si era abbandonato anni prima con lui: la sua guida verso il bene è ora Virgilio, in attesa della futura venuta di Beatrice.

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CANTO XXIV

I tre poeti percorrono il sesto girone in compagnia di Forese Donati, il quale, rispondendo a Dante, rivela che la sorella Piccarda é già tra le anime beate del paradiso, e che tra i suoi compagni di pena nella cornice dei golosi ci sono alcuni nobili, alcuni ecclesiastici e un poeta lucchese, Bonaggiunta Orbicciani. Quest'ultimo profetizza a Dante che a Lucca, durante il periodo del suo esilio, una donna di nome Gentucca gli dimostrerà una profonda gentilezza e una delicata amicizia. In un secondo tempo Bonaggiunta affronta con Dante il problema della nuova poesia - quella del dolce stil novo - che si sta diffondendo, la quale ha una sola guida, il sentimento d'amore che fornisce l'ispirazione. Continuando nel cammino, poiché il Poeta ha ricordato la triste situazione in cui si trova la città di Firenze a causa delle lotte interne, Forese preannuncia l'imminente morte violenta del fratello Corso, capo del partito dei Neri e uno dei principali responsabili delle discordie civili. Subito dopo l'ombra del goloso fiorentino si allontana dai tre poeti per rientrare nella sua schiera, mentre appare un albero carico di frutti verso i quali gruppi di anime tendono con impaziente avidità le mani: allorché Dante si avvicina, una voce misteriosa grida dalle fronde alcuni esempi di golosità punita. I due pellegrini e Stazio, tutti assorti nella meditazione di quanto hanno appena udito, giungono alla fine del sesto girone, dove l'angelo della temperanza assolve Dante dal peccato di gola.

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CANTO XXV

Sono circa le due pomeridiane mentre Dante, Virgilio e Stazio continuano l'ascesa dal sesto girone, quello dei golosi, all'ultimo, dove subiscono la loro pena i lussuriosi. Il Poeta, tuttavia, è tormentato da un dubbio, che il timore di riuscire fastidioso ai suoi due maestri gli vieta di esprimere. Ma, in seguito a una paterna esortazione di Virgilio, egli chiede come avviene il dimagrimento delle anime dei golosi, se esse non hanno bisogno di cibo. Virgilio, dopo un primo tentativo di chiarire questo problema attraverso due esempi, prega Stazio di fornire una dimostrazione più completa e convincente del fenomeno. Questi accosta il problema in modo ampio e generale, iniziando una sistematica dissertazione che possiamo dividere in quattro parti. 1) Teoria della generazione umana: formazione dell'embrione dall'unione dell'uomo e della donna e, nell'embrione, formazione dell'anima vegetativa e sensitiva (versi 37-60). 2) Infusione dell'anima razionale nel corpo: quando nel feto la struttura del cervello è completa, Dio, con un atto creativo diretto, vi infonde l'anima razionale, che assimila le altre due, formando una sola anima (versi 61-78). 3) Modo dell'esistenza dell'anima dopo la morte: l'anima, uscendo dal corpo dopo la morte di questo, porta con sé le tre facoltà - vegetativa, sensitiva, razionale - e si dirige alle rive dell'Acheronte, se è dannata, o alla foce del Tevere, se è destinata alla salvezza (versi 79-87). 4) Genesi e condizione delle ombre: l'anima, giunta nel luogo assegnatole, opera nell'aria che la circonda e si costruisce con questa aria una specie di forma corporea, che è dotata degli organi dei sensi e può esprimere tutta la gamma dei sentimenti. Questa è la ragione per cui può avvenire nei golosi il dimagrimento. Appaiono poi, in mezzo a un grande fuoco, le anime dei lussuriosi, che cantano « Summae Deus clementiae » e gridano alcuni esempi di castità.

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CANTO XXVI

Il settimo e ultimo girone del purgatorio è occupato da un grande fuoco, nel quale purificano il loro peccato le anime dei lussuriosi. L'attenzione del pellegrino è attirata dal sopraggiungere improvviso di una turba di anime, procedenti in direzione opposta rispetto a quella della prima schiera apparsa ai tre viandanti alla fine del canto XXV. Quando i due gruppi si incontrano, le anime, senza fermarsi, si baciano festosamente fra di loro; allorché si separano, le ombre della seconda schiera gridano il nome delle due città bibliche di Sodoma e Gomorra, quelle della prima ricordano la lussuria della regina cretese Pasifae. Dopo aver rivelato di essere ancora vivo, Dante chiede che gli venga spiegata la duplice divisione delle anime dei lussuriosi. Superato il primo momento di stupore, l'ombra che già precedentemente si era rivolta al Poeta, riprende a parlare: la schiera che si allontana gridando « Sodoma e Gomorra » è quella dei sodomiti, l'altra è quella dei lussuriosi secondo natura, i quali però non seppero frenare con la ragione i loro istinti. Soltanto ora Dante ci fa conoscere il nome del suo interlocutore: Guido Guinizelli, il famoso iniziatore della scuola poetica del, dolce stil novo, il quale presenta il poeta che, a suo giudizio, seppe usare ancora meglio di lui, nei suoi versi, la lingua materna al posto dell'ormai superato latino. Appare così la figura del maggiore trovatore provenzale, Arnaldo Daniello, che, parlando nella lingua della propria terra, chiede a Dante di ricordarlo nelle sue preghiere.

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CANTO XXVII

Il sole sta tramontando sul monte del purgatorio quando l'angelo della castità, dopo aver cantato la sesta beatitudine evangelica « Beati mundo corde! », invita i tre poeti ad entrare nelle fiamme che occupano il settimo girone, per poter proseguire il loro viaggio, Ma Dante esita, pieno di paura, e Virgilio deve intervenire per far presente al discepolo che nel purgatorio le pene possono tormentare, ma non uccidere. Tuttavia solo quando il maestro gli ricorda che al di là di quel muro di fiamme egli potrà finalmente vedere Beatrice, Dante si decide e segue la sua guida nel fuoco, mentre Stazio chiude il piccolo gruppo. Virgilio, per esortare il discepolo e sostenerlo nel difficile momento, continua a parlar di Beatrice finché, guidati da un canto, i tre poeti escono dalle fiamme, trovandosi davanti a un angelo, che li invita a salire prima che sopraggiunga la notte. Poco dopo, tuttavia, essendo tramontato il sole, essi si coricano su tre gradini tagliati nella roccia, per aspettare il nuovo giorno. Il Poeta, mentre osserva il cielo stellato, viene preso dal sonno; quando l'alba è vicina egli sogna una giovane donna, bella e leggiadra, che percorre la campagna cogliendo fiori e che, cantando, rivela il proprio nome: è Lia, che fu la prima moglie di Giacobbe e rappresenta il simbolo della vita attiva, mentre Rachele, che fu la seconda moglie del patriarca ebraico, è simbolo della vita contemplativa. Ogni tenebra è scomparsa quando Dante si riscuote dal sonno; subito dopo il maestro gli spiega che è ormai vicina quella felicità che tutti i mortali cercano ansiosamente e che è simboleggiata dal paradiso terrestre. Virgilio, dopo aver accompagnato Dante fino al termine della scala che conduce all'Eden, si congeda da lui: il suo compito si è concluso, il discepolo ha raggiunto la totale purificazione e non gli resta che attendere la venuta di Beatrice.

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CANTO XXVIII

Dante, lasciato da Virgilio alla soglia del paradiso terrestre, sì dirige verso il bosco, folto e ricco di verde, che occupa gran parte dell'Eden. Entrato nella selva, il Poeta si trova la strada interrotta da un ruscello, le cui acque, benché prive di ogni impurità, appaiono tutte scure sotto l'ombra perpetua della divina foresta. Sulla sponda opposta appare una figura di straordinaria dolcezza: una donna cammina sulla riva del fiumicello cantando e cogliendo i fiori più belli. Dante la prega di avvicinarsi di più a lui, affinché gli sia possibile udire le parole del suo canto, e la donna, muovendosi con la stessa grazia di una figura danzante, ne esaudisce la richiesta. Matelda, questo è il nome (che sarà rivelato solo nel canto XXXIII, verso 119) della dolce apparizione, dichiara di essere giunta per soddisfare ogni domanda di Dante, il quale subito le chiede una spiegazione: come possono esserci nel paradiso terrestre l'acqua e il vento, dal momento che al di sopra della porta del purgatorio non esistono alterazioni atmosferiche? Il monte del purgatorio - incomincia Matelda - fu scelto da Dio per essere la dimora dell'uomo, il quale ne fu privato dopo il peccato originale; esso fu creato altissimo, affinché le perturbazioni atmosferiche non nuocessero alla creatura umana, ma la sfera dell'aria, che si muove con il muoversi dei cieli, colpisce gli alberi della selva facendoli stormire. Questi ultimi impregnano dei loro semi l'aria intorno, la quale, muovendosi, li sparge dovunque sulla terra. Quanto al ruscello che Dante ha visto, esso non nasce da una sorgente alimentata dalle piogge, ma da una fonte che riceve direttamente da Dio tanta acqua, quanta ne perde. Infatti due sono i fiumi del paradiso terrestre: il primo, già incontrato dal Poeta, è il Lete, la cui acqua dona l'oblio dei peccati commessi, il secondo è l'Eunoè, che fa ricordare solo le opere buone compiute.

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CANTO XXIX

Matelda si muove lentamente lungo la riva del Lete, e Dante la segue, rimanendo sull'altra sponda. La divina foresta del paradiso terrestre è illuminata improvvisamente da un forte lampo che, invece di scomparire subito dopo, diventa sempre più luminoso, mentre si diffonde una dolce melodia. Il Poeta invoca ora il soccorso delle Muse, in modo particolare di Urania, per poter narrare in versi quanto i suoi occhi vedono, poiché egli si accinge a descrivere la mistica processione della Chiesa, processione nella quale ogni oggetto e ogni figura rivestono un valore allegorico, perché viene presentata in sintesi la storia della Chiesa. Sulla sponda del fiume opposta a quella sulla quale si trova Dante, appaiono sette candelabri che si muovono lentamente, lasciandosi dietro sette lunghissime strisce luminose. Procedono sotto questi particolari stendardi ventiquattro seniori vestiti di bianco, con in capo una corona di gigli; essi cantano un inno nel quale esaltano la grandezza della Vergine. Sono seguiti da quattro animali, coronati di fronde verdi, ciascuno con sei ali cosparse di occhi. Lo spazio libero tra i quattro animali è occupato da un carro trionfale, tirato da un grifone, il cui corpo ha l'aspetto di un'aquila nella testa e nelle ali, e di un leone nelle restanti membra; le ali si innalzano verso il cielo passando tra le strisce luminose dei candelabri. Il carro ha alla sua destra tre donne che avanzano danzando: la prima appare tutta rossa, la seconda verde, la terza bianca. Alla sinistra le figure femminili danzanti sono quattro, e tutte appaiono vestite di un abito rosso. Questo gruppo è seguito da due vecchi pieni di dignità: l'aspetto di uno è quello di un medico, mentre l'altro tiene in mano una spada. Dopo di loro avanzano, in umile atteggiamento, altre quattro figure, che precedono di poco un vecchio, solo e immerso nel sonno. Questi ultimi sette personaggi sono tutti vestiti di bianco, e coronati di una ghirlanda di rose e fiori rossi. Allorché il carro giunge proprio di fronte a Dante, si ode un tuono, dopo il quale tutta la processione si ferma come se non potesse procedere oltre.

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CANTO XXX

Alla fine del canto XXIX un tuono improvviso ha fatto fermare la processione che avanzava lentamente lungo il Letè. Mentre tutti i personaggi del corteo si volgono verso i carro, uno dei ventiquattro seniori ripete per tre volte, cantando, le parole « Veni, sponsa de Libano », subito seguito da tutti gli altri: è invocata, in questo momento, la presenza di Beatrice. Immediatamente dopo compare sul carro un gruppo di angeli, che pronuncian le parole: « Benedictus qui venis! » e gettano ovunque fiori, dicendo: « Manibus, oh, date lilia plenis! » . All'improvviso, in mezzo a questa nuvola di fiori, vestita di rosso, coperta di un manto verde, con il capo circondato da un velo bianco, che è sostenuto da una ghirlanda di ulivo, appare Beatrice. Davanti a lei, benché siano passati dieci anni dalla sua morte Dante sente, con la stessa intensità di un tempo, la forza dell'amore. Per rivelare questo momento di smarrimento si volge verso Virgilio, accorgendosi solo ora che il maestro lo ha lasciato: nessuna bellezza del paradiso terrestre può allora impedire al Poeta di dare libero sfogo al suo dolore attraverso il pianto. Ma Beatrice lo richiama, lo esorta a conservare le sue lagrime per una sofferenza più profonda, che fra poco egli proverà. L'atteggiamento della donna è fiero e regale, e le sue parole severe provocano nel pellegrino un penoso senso di vergogna e di abbattimento, dal quale sembra riscuotersi allorché gli angeli intervengono in suo aiuto di fronte a Beatrice. Ma ella dichiara che il dolore del pentimento deve essere pari alla gravità delle pene commesse, poiché - continua - Dante, pur essendo dotato di ogni più felice disposizione al bene, si lasciò traviare nella sua giovinezza, abbandonandosi al peccato. Infatti, finché visse Beatrice, la presenza della donna amata gli fu guida sufficiente sulla strada del bene, ma dopo la sua morte egli si incamminò per via non vera e a nulla valsero i tentativi da lei compiuti per ricondurlo sul retto cammino. L'unico rimedio efficace consisteva nell'ispirargli orrore per il peccato, mostrandogli tutte le brutture e le sofferenze dell'inferno: per questo Beatrice stessa discese nel limbo per chiedere l'aiuto di Virgilio in questa impresa.

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CANTO XXXI

Continua, nel XXXI, il rimprovero che Beatrice, nel canto precedente, ha incominciato a rivolgere al Poeta per il traviamento morale al quale egli si era abbandonato dopo la morte della donna amata. Da quali allettamenti, da quali piaceri - vuole sapere Beatrice Dante si è lasciato attrarre, tanto da dimenticare ogni dovere spirituale? Furono - risponde, piangendo, il pellegrino - i beni fallaci del mondo che influenzarono il suo animo dopo la morte di chi in terra rappresentava per lui la bellezza, l'amore, la virtù. Anche se, agli occhi di Dio, è sommamente meritoria la confessione del proprio peccato, è necessario che il Poeta senta fino in fondo la vergogna delle sue colpe: poiché la natura o l'arte non offrirono mai a Dante una bellezza pari a quella di Beatrice e questa bellezza andò distrutta con la morte, nessun'altra realtà materiale - conclude la donna - avrebbe dovuto attirare la sua attenzione, dal momento che ogni bene terreno, anche il più alto, risulta sempre caduco; anzi, proprio in base a questa constatazione, il suo animo avrebbe dovuto volgersi verso l'alto. Ad un invito di Beatrice, Dante solleva lo sguardo per osservarla: la celestiale bellezza della donna, anche se ancora celata dal velo, è tale che il Poeta, avvertendo con estrema intensità il pentimento per le sue colpe, perde conoscenza. Allorché si riprende, si trova immerso nel Lete per opera di Matelda, la quale lo conduce sull'altra riva, dove Dante viene circondato dalle quattro virtù cardinali. Ma sono le tre virtù teologali che hanno il compito di portarlo davanti a Beatrice: gli occhi del Poeta fissano quelli splendenti della donna, il cui sguardo è però rivolto al grifone. Solo in seguito alla preghiera delle tre virtù teologali ella acconsente a liberare il suo volto dal velo che lo ricopre, affinché Dante la possa vedere in tutta la sua bellezza.

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CANTO XXXII

Le figure femminili che simboleggiano le sette virtù invitano Dante a distogliere il suo sguardo da Beatrice per volgerlo alla processione, la quale, in questo momento, riprende a muoversi in direzione opposta rispetto a quella prima seguita; finché tutti i suoi membri si fermano intorno a un albero altissimo e spoglio di fronde. Dopo che il grifone vi ha legato il suo carro, la pianta rinasce a nuova vita, coprendosi di fiori e di foglie. Il canto dolcissimo innalzato dai personaggi del corteo provoca in Dante una specie di tramortimento, e, quando si risveglia, Matelda gli indica Beatrice che siede sotto l'albero circondata dalle sette virtù, mentre i ventiquattro seniori, il grifone e gli altri componenti del corteo risalgono al cielo. La seconda parte del canto è occupata dalla rappresentazione delle vicende del carro della Chiesa attraverso successive allegorie. Dante ricorda - con la figura dell'aquila - le persecuzioni portate contro i primi cristiani e con l'immagine della volpe il diffondersi delle eresie; in un secondo tempo l'aquila - simbolo dell'Impero - ritorna e lascia sul carro una parte delle sue penne, per indicare il potere temporale di cui fu investita la Chiesa dopo la donazione territoriale fatta dall'imperatore Costantino a papa Silvestro. Poi un drago, che rappresenta Satana, esce improvvisamente dalla terra e, dopo aver colpito con la coda maligna il carro, si allontana pieno di soddisfazione. L'immagine della Chiesa si trasforma infine in una figura mostruosa, dotata di sette teste e dieci corna: su di lei siede una sfrontata meretrice, a fianco della quale compare un gigante, che flagella ferocemente la donna subito dopo che questa ha volto il suo sguardo verso Dante. Il canto termina mostrando il gigante che stacca dall'albero il carro della Chiesa per trascinarlo nella selva.

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CANTO XXXIII

Le quattro virtù cardinali e le tre teologali iniziano, di fronte alle tristi vicende del carro della Chiesa, il canto del Salmo LXXIX: « Deus, venerunt gentes », al quale Beatrice risponde con le stesse parole rivolte da Gesù ai discepoli per annunziare loro la sua morte e la sua risurrezione: « Modicum, et non videbitis me... » . In un secondo momento Beatrice invita Dante a camminare al suo fianco, affinché possa meglio udire le sue parole. Ella ora intende spiegare i misteriosi prodigi avvenuti intorno e sul carro della Chiesa e contemporaneamente preannunziare la punizione di coloro che si sono resi colpevoli della corruzione morale della Chiesa. Al Poeta - continua Beatrice - toccherà il compito di riferire agli uomini ciò che ha udito. E poiché Dante osserva che il linguaggio da lei usato è troppo oscuro ed esige uno sforzo non comune per poterlo comprendere. Beatrice rivela che ciò avviene per dimostrare all'uomo che ogni dottrina terrena è insufficiente a penetrare la scienza divina. È mezzogiorno allorché le figure delle sette virtù si fermano nella zona in cui termina l'ombra della foresta, di fronte alla sorgente dei due fiumi del paradiso terrestre, il Lete, nelle cui acque il Poeta è già stato immerso per dimenticare il male passato, e l'Eunoè. Matelda - in seguito a un comando di Beatrice - invita Dante e Stazio a seguirla per bere l'acqua di questo fiume, che ravviva la memoria del bene compiuto. Con questo ultimo rito la purificazione del Poeta è completa: egli è ormai puro e disposto a salire alle stelle.

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PARADISO


CANTO I

Dante afferma che materia del suo canto sarà la visione del paradiso, o almeno ciò che la memoria può ricordare di quella realtà ineffabile. Perciò è necessario invocare l'intervento di Apollo, affinché, di fronte alla difficoltà dell'argomento della terza cantica, aggiunga il suo aiuto a quello delle Muse, che già hanno soccorso il Poeta nella composizione dell'Inferno e del Purgatorio. Solo così Dante sarà sicuro di poter cingere un giorno la corona di poeta, consapevole di aprire, con il suo esempio, una strada sulla quale lo potranno seguire anche miglior voci. E' l'alba quando Dante, imitando Beatrice che teneva gli occhi fissi sul sole, volge il suo sguardo verso la lucerna del mondo, che gli appare di uno splendore luminosissimo. Poi gli occhi del Poeta tornano a guardare la donna amata e in questo momento si opera il suo trasumanar, cioè il suo innalzarsi oltre ogni limite umano, poiché inizia ora per lui l'ascesa verso i cieli attraverso la sfera dell'aria e quella del fuoco. Il ruotare delle sfere celesti provoca un suono armonioso, che riempie di stupore il Poeta, per il quale costituivano già motivo di profonda meraviglia i bagliori, più luminosi del solito, del sole. Beatrice gli rivela allora che egli non si trova più sulla terra, ma che sta salendo verso i cieli. Tuttavia un altro dubbio tormenta Dante: come è possibile che il suo corpo possa passare attraverso le regioni dell'aria e del fuoco? La spiegazione di Beatrice esamina la presenza, in ogni essere creato, di una inclinazione naturale che lo porta a tendere ad una meta specifica: ora il fine ultimo dell'uomo è quello di raggiungere l'Empireo, il cielo creato per essere la sua sede, e verso di esso ogni creatura umana sale dopo che è stato rimosso in lei l'ostacolo del peccato.

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CANTO II

Il canto si apre con un ammonimento del Poeta ai suoi lettori: solo coloro che sono dotati di intelligenza e di cultura adeguate lo potranno seguire nell'arduo cammino che sta iniziando. Infatti, con la guida di Beatrice, egli sale dal paradiso terrestre, posto sulla vetta del monte del purgatorio, al cielo della Luna, il primo dei nove cieli fisici che dovrà attraversare prima di giungere all'Empireo, dove ha la sua sede Dio. La superficie lunare appare luminosa come un diamante, ma Dante sa che essa è COsparsa di macchie scure, intorno alle quali chiede spiegazioni . a Beatrice. Questa dapprima nega ogni valore alla credenza popolare che vedeva, in quelle macchie, la figura di Caino gravato da un fascio di spine. In seguito dimostra la non validità della teoria scientifica che trovava la causa, di quelle zone oscure nella maggiore o minore densità della materia costituente la luna. Dopo aver convinto Dante:che la ragione umana, qualora non sia sorretta dalla fede. e dall'insegnamento teologico, mostra tutti i suoi limiti, Beatrice espone la dottrina esatta, estendendo la sua spiegazione dalla luna a tutti gli altri corpi celesti. Le zone più o meno scure che sì notano sulla loro superficie dipendono dall'influenza dei cori angelici, le intelligenze motrici dei singoli cieli. Infatti ad una maggiore o minore letizia della intelligenza angelica corrisponde, nel cielo che da essa riceve le sue qualità specifiche, una maggiore o minore luminosità.

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CANTO III

Nel cielo della Luna appaiono i primi beati: i lineamenti dei loro volti sono così tenui e indistinti che Dante ritiene di trovarsi di fronte a immagini ridesse. Queste anime godono del grado di beatitudine più Lasso e occupano l’ultimo cielo, quello più vicino alla terra, perché non hanno adempiuto completamente i voti offerti a Dio. Il Poeta si rivolge a uno spirito beato che sembra particolarmente desideroso di parlare con lui e chiede di conoscere il suo nome e la condizione in cui si trovano le anime del cielo della Luna. Risponde l’ombra di Piccarda, sorella di Corso e di Forese Donati, appartenente ad una delle famiglie pii) note di Firenze. Attraverso le sue parole Dante spiega che nel paradiso, per essendoci diversi gradi di beatitudine, ogni spirito beato è perfettamente felice, poiché la letizia che Dio infonde è proporzionata alla capacità di godere di ciascuna anima. Infatti se i beati del cielo della Luna desiderassero trovarsi in una sfera superiore, questo loro desiderio contrasterebbe con la volontà di Dio, che, a seconda dei meriti di ciascuno, ha assegnato un posto particolare nel regno dei cieli. Viene così rivelato il principio fondamentale del paradiso: la beatitudine non è altro che volere ciò che Dio stesso vuole, perché ‘n la sua volontade è nostra pace. Poi Piccarda accenna brevemente alla propria vita e indica un’altra anima locata, anche ella costretta, come lei, ad abbandonare il chiostro: è Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI e madre di Federico II. Dopo che Piccarda, cantando "Ave, Maria" scompare alla sua vista, Dante si volge verso la luce folgorante di Beatrice.

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CANTO IV

Nel canto quarto Beatrice chiarisce due dubbi di Dante, che ella ha intuito senza che il suo discepolo glieli rivelasse. Il primo dubbio riguarda le anime che non hanno adempiuto completamente i voti: se esse hanno dovuto cedere alla violenza altrui, come possono essere considerate responsabili? Il secondo dubbio nasce dalla presenza dei beati nei singoli cieli: allora - si chiede Dante - le anime ritornano nel cielo da cui sono venute, così come afferma Platone? Beatrice affronta per primo questo dubbio, perché lo ritiene più dannoso per la fede. La vera sede dei beati è l’Empireo: essi appaiono nei diversi cieli affinché Dante possa avere una prova sensibile dei loro digerenti gradi di beatitudine, perché l’intelletto umano può apprendere solo ciò che proviene dal dato sensibile. Perciò si deve respingere la dottrina platonica del ritorno di ogni anima nel cielo dal quale si era staccata per entrare nel corpo. Per spiegare la responsabilità delle anime della prima sfera che hanno mancato ai loro voti, Beatrice distingue una volontà assoluta e una volontà relativa. La prima non vuole in alcun modo il male, la seconda si piega ad un male per evitarne uno peggiore: così fecero appunto gli spiriti del primo cielo, laddove invece avrebbero dovuto opporsi con tutte le loro forze alla violenza (ritornando, per esempio nel caso di Piccarda e di Costanza, al convento dal quale erano state fatte uscire). Dopo aver innalzato un inno di lode e di ringraziamento a Beatrice, Dante rivolge alla donna amata una nuova domanda, alla quale ella risponderà nei canto seguente.

Vai al Canto 4



CANTO V

La prima parte del canto quinto è occupata dalla spiegazione con la quale Beatrice risponde alla domanda di Dante riguardante la possibilità di compensare i voti non adempiuti con altre opere buone. Ella dapprima dimostra la santità del voto: con esso, infatti, I’uomo fa sacrificio a Dio del dono più grande ricevuto dal suo Creatore, quello del libero arbitrio. Non può, dunque, usare nuovamente della libertà che egli ha offerto a Dio con un atto della propria volontà. Per prevenire una nuova domanda di Dante (perché, allora, la Chiesa può dispensare dal voto?), Beatrice distingue nel voto i due elementi essenziali: la materia e il patto. La prima può essere mutata, ma solo con il permesso della Chiesa e solo se la nuova offerta è superiore, in valore, alla prima. Il secondo non può essere cancellato se non quando il voto è stato adempiuto completamente. Da qui deriva la necessità, per i cristiania di riflettere attentamente prima di offrire voti che non possono mantenere. Beatrice e Dante ascendono poi al secondo cielo, quello di Mercurio, nel quale si trovano le anime di coloro che in vita operarono il bene per conseguire onore e gloria. Uno spirito si rivolge al Poeta dichiarandosi pronto a soddisfare, in nome della carità, ogni sua domanda. Dante chiede di poter conoscere il nome di quest’anima e il motivo per cui essa gode del grado di beatitudine proprio del cielo di Mercurio.

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CANTO VI

Nel cielo di Mercurio l’imperatore Giustiniano, dopo aver narrato a Dante la storia della sua vita, dalla conversione alla grandiosa opera legislativa con la quale riordinò tutto il diritto romano, rievoca, celebrandone le lodi, l’epopea di Roma e del suo impero, simboleggiato nel sacrosanto segno dell’aquila. La narrazione ha inizio dal momento in cui Pallante, figlio di Evandro re del Lazio, morì combattendo in aiuto di Enea, che aveva portato dall’Oriente, da Troia, la gloriosa insegna. Prosegue con le vicende del periodo dei sette re e dell’età repubblicana, allorché Roma estese sempre di più le sue conquiste. Dopo aver accennato alle guerre civili, Giustiniano presenta la gloriosa figura di Cesare, che diede a Roma il dominio del mondo. La terra, unita e pacificata, fu pronta a ricevere, sotto il suo successore, Augusto, la venuta del Messia, che riscattò l’umanità dal peccato con il sacrificio della croce. Fu Roma poi che vendicò la morte dell’Uomo-Dio, distruggendo Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito e punendo, in tal modo, il popolo ebraico. Infine il segno dell’aquila in mano a Carlo Magno, difese la Chiesa di fronte ai Longobardi. Giustiniano terminò la sua rievocazione ammonendo i Guelfi e i Ghibellini a non asservire ai propri interessi faziosi il simbolo dell’aquila, sacro e universale. Dopo aver spiegato che nel cielo di Mercurio si trovano coloro che desiderarono conseguire la fama nel mondo, Giustiniano indica la nobile figura di Romeo di Villanova, ministro di Berengario IV conte di Provenza, costretto ingiustamente all’esilio dalle accuse di cortigiani insidiosi del suo potere.

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CANTO VII

L'anima di Giustiniano si allontana cantando, seguita dagli altri beati del cielo di Mercurio, mentre Dante appare tormentato da un dubbio che non osa rivelare a Beatrice. Perché, si chiede il Poeta, Dio ha scelto la morte del Figlio per riscattare l'umanità dal peccato? e perché questa morte, se era necessaria per cancellare la colpa dell'uomo, fu vendicata con la distruzione di Gerusalemme, dove l'Uomo-Dio era stato crocifisso? Tuttavia Beatrice ha compreso le incertezze del suo discepolo e inizia una spiegazione che si protrae per il resto del canto. In due modi la creatura poteva ottenere il perdono dopo il peccato originale dei progenitori:o per azione di Dio o per azione propria. Tuttavia, poiché l'offesa fatta a Dio era infinita, l'uomo, da solo, non avrebbe mai potuto offrire un'adeguata riparazione. D'altra parte Dio avrebbe potuto perdonarlo solo per un atto di misericordia: invece, nel suo infinito amore, volle offrire in sacrificio il suo stesso Figlio. Dunque - conclude Beatrice - nella natura umana di Cristo fu punita, con la morte tutta l'umanità peccatrice, ma gli uomini che osarono alzare la mano contro la natura divina commisero un atto di folle empietà: per questo la distruzione di Gerusalemme, dove avvenne quell'atto, fu giusta vendetta. Il canto si chiude con una spiegazione di Beatrice sulla corruttibilità degli elementi generati da cause seconde e l'incorruttibilità di ciò che è creato direttamente da Dio.

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CANTO VIII

Dante e Beatrice ascendono al terzo cielo, quello di Venere, dove appaiono le anime di coloro che in vita sentirono con particolare intensità l’impulso amoroso, dal quale si lasciarono trascinare al male, finché seppero volgere questa loro inclinazione naturale a nobili azioni. La prima anima che si fa avanti è quella del figlio di Carlo II d’Angiò, Carlo Martello, il quale in vita fu legato a Dante da affettuosa amicizia. Il giovane principe parla delle terre di cui sarebbe diventato sovrano se la morte non lo avesse rapito anzitempo, la Provenza e la regione napoletana. Ricorda che anche la bella Sicilia avrebbe potuto essere uno dei suoi dominii se la casata angioina avesse saputo ben governarla e non avesse provocato con la sua mala segnoria la rivolta dei Vespri Siciliani. Accenna infine al rapace governo esercitato nel regno di Napoli dal fratello Roberto. A questo punto Dante chiede all’amico di sciogliere un suo dubbio: come è possibile che i figli siano di indole diversa da quella dei padri? I cicli - spiega Carlo Martello - agiscono sulla terra con i loro influssi secondo fini preordinati da Dio, tuttavia diffondono la loro virtù, la loro forza plasmatrice, a caso, senza distinguere l’un dall’altro ostello. Se così non fosse, non esisterebbe tra gli uomini una differenziazione nelle attitudini naturali, nelle indoli di ciascuno. Tale differenziazione è indispensabile perché, essendo l’uomo creato per vivere in un organismo sociale, dove le attività e i compiti da svolgere sono molteplici, occorre che ciascuno sia in grado di ricoprire il suo ufficio. Il discorso di Carlo Martello termina con un amaro rimprovero al mondo, che non rispetta le attitudini naturali dei singoli uomini.

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CANTO IX

All’inizio del canto si conclude l’incontro di Dante con Carlo Martello, dopo che questo ha preannunciato le sciagure che entro breve volgere di anni colpiranno la casa angioina. Subito dopo un altro spirito del cielo di Venere si avanza verso il Poeta: è Cunizza da Romano, sorella di Ezzelino III, il famoso tiranno della Marca Trivigiana. Dopo aver presentato la propria terra Cunizza accenna alla corruzione dilagata nella regione trevigiana e profetizza per essa un doloroso futuro: Padova, Treviso, Feltre, dove il male è ormai diventato costume di vita, pagheranno ben presto il fio delle loro colpe. Allorché Cunizza riprende con gli altri beati la danza che aveva interrotta per parlare con lui, Dante si rivolge all’anima che gli era già stata presentata dalla nobildonna trevigiana, invitandola a rivelare il proprio nome. Si tratta di un trovatore, Folco da Marsiglia, che divenne vescovo di Tolosa e partecipò alla crociata contro gli Albigesi. Presentata la sua città con una lunga descrizione, egli rivela a Dante che gode la beatitudine del terzo cielo anche Raab, la meretrice di Gerico che aiutò il condottiero ebraico Giosuè nella conquista della città, meritandosi così la salvezza eterna. Folco chiude il suo discorso con un’aspra invettiva contro Firenze, colpevole di aver coniato la moneta d’oro, causa prima del diffondersi dell’avidità nel mondo, e contro la Chiesa, che si lascia traviare dal miraggio dei beni terreni.

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CANTO X

Dante e Beatrice ascendono al quarto cielo, quello del Sole, dove godono l’eterna beatitudine gli spiriti sapienti. Dodici di essi, danzando, si dispongono a corona intorno al Poeta e alla sua guida, mentre il loro gaudio è espresso non solo dalla luce intensissima che irradiano, ma anche dal canto che accompagna ogni loro movimento. E’ un trionfo di splendore e di amore che colma di estatico rapimento l’anima di Dante, il quale si immerge nella contemplazione di Dio. Da una di quelle luci si alza una voce che si dichiara pronta a soddisfare ogni desiderio del Poeta. E' il domenicano San Tommaso d’Aquino, il quale condanna l’attuale corruzione morale dell’ordine di San Domenico. Egli rivela poi i nomi dei suoi dodici compagni, mettendo brevemente in rilievo le caratteristiche dell’opera di ciascuno. La rassegna, incominciata con la figura del grande teologo tedesco,4lberto Magno, si chiude con il nome di Sigieri di Brabante, un pensatore di indirizzo averroistico, il quale in vita fu accusato di eresia. Ma Dante vuole esaltare, in questo canto, tutti coloro che amarono la sapienza e dedicarono ad essa la loro esistenza, anche se talvolta si lasciarono trascinare fuori del terreno dell’ortodossia.

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CANTO XI

Nel canto Xl continua a parlare lo spirito di San Tommaso d’Aquino, che si accinge a chiarire un dubbio sorto in Dante in seguito ad una sua affermazione: u’ ben s’impingua se non si vaneggia (canto X, verso 96). Egli spiega che Dio, per il bene della Chiesa, dispose due guide che la conducessero verso il bene, San Francesco e San Domenico, fondatori dei due grandi ordini monastici del secolo XII, i quali avevano come loro scopo fondamentale la riforma morale del mondo cristiano. San Tommaso inizia a questo punto la celebrazione della figura e dell’opera di Francesco d’Assisi, mettendo in rilievo le caratteristiche della sua personalità e i momenti più importanti della sua azione. Ricorda dapprima la rinuncia di Francesco ai beni terreni per abbracciare l’assoluta povertà e i suoi primi seguaci. A Roma il poverello d’Assisi ottiene l’approvazione del proprio ordine prima da Innocenzo III e poi da Onorio III. Recatosi in Oriente, cerca di diffondere in quelle terre la parola di Cristo, ma, fallito questo tentativo, deve ritornare in Italia. Qui, sul monte della Verna, riceve, due anni prima di morire, le sacre stimmate. San Tommaso termina il suo discorso con una dura rampogna rivolta all’ordine domenicano, che ha dimenticato il suo voto di povertà per dedicarsi solo alla ricerca dei beni mondani.

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CANTO XII

Dopo che San Tommaso ha terminato parlare, la corona di spiriti sapienti, della quale fa parte, riprende a ruotare intorno a Dante e a Beatrice. Prima che essa abbia completato il suo giro, sopraggiunge una seconda corona, che si dispone intorno alla prima, accordandosi ad essa nel canto e nel movimento. Da questa nuova ghirlanda, dopo che il canto e la danza sono cessati, si alza la voce del francescano San Bonaventura, il quale inizia l’apoteosi di San Domenico, l’altro grande riformatore della vita religiosa del secolo XII accanto a San Francesco. San Bonaventura ricorda la nascita e i primi prodigi che accompagnarono la vita di Domenico, il quale mostrò ben presto un ardente amore verso Dio, amore che lo spinse ad approfondire sempre di più gli studi filosofici e teologici per combattere le eresie che minacciavano l’unità della Chiesa. Mentre San Tommaso, nel canto precedente, ha messo in rilievo la corruzione diffusasi fra i seguaci di San Domenico, ora San Bonaventura costata amaramente che l’ordine dei frati minori appare tormentato da discordie e da lotte che gli fanno dimenticare lo scopo primo per cui esso era stato fondato. San Bonaventura termina il suo discorso ricordando i nomi dei dodici spiriti sapienti che si trovano con lui nella seconda corona.

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CANTO XIII

Le due corone di spiriti sapienti che sono apparse a Dante nel cielo del Sole compiono un giro di danza intorno a lui e a Beatrice, elevando un inno di lode alla Trinità. Dopo che esse hanno cessato il loro movimento e il loro canto, riprende a parlare San Tommaso d’Aquino, il quale risolve il secondo dubbio di Dante, relativo alle parole da lui pronunciate per presentare lo spirito beato di Salomone: a veder tanto non surse il secondo (canto X, verso 114). Allorché ha affermato che nessun altro uomo ha mai potuto uguagliare la sapienza di Salomone, San Tommaso intendeva riferirsi alla saggezza di Salomone nel guidare e governare secondo giustizia il suo popolo: egli, cioè, lo ha considerato come re, non come uomo. Infatti solo in Adamo e in Cristo fu infusa tutta la sapienza che la natura umana poteva possedere. Per meglio chiarire la sua affermazione San Tommaso spiega che sono perfette solo le creature generate da Dio direttamente (come appunto Adamo e Cristo), non quelle che Dio produce attraverso le cause seconde, i cieli. Ancora un’osservazione, prima di porre termine al suo discorso: coloro che si stupiscono di veder salvo Salomone, dopo che nella Bibbia fu aspramente rimproverato per i suoi peccati, commettono un grave errore, perché pretendono di sostituirsi al giudizio di Dio. Gli uomini - conclude San Tommaso - dovrebbero essere più cauti nel formulare giudizi sul loro prossimo, perché essi vedono solo le azioni esteriori, mentre Dio conosce ciò che è nascosto nel cuore di ognuno. Solo Lui, dunque, può decidere della salvezza o della dannazione eterna delle sue creature.

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CANTO XIV

Nel cielo del Sole Beatrice chiede agli spiriti sapienti di risolvere un dubbio che si sta spacciando alla mente di Dante riguardo alla luminosità dei beati dopo la risurrezione della carne. Risponde l’anima di Salomone, la quale afferma che non solo essi conserveranno la luce che li fascia ora, ma che i loro occhi corporei saranno resi capaci di sopportare simile splendore. Intorno alle due corone che si erano formate precedentemente appare una terza ghirlanda, così luminosa da abbagliare la vista di Dante. Allorché egli risolleverà gli occhi che aveva dovuto abbassare di fronte a quel fulgore eccessivo, si accorgerà di essere giunto con Beatrice nel quinto cielo, quello di Marte, illuminato da una luce rosseggiante. In questa sfera gli spiriti di coloro che hanno combattuto per la fede sono disposti su due liste luminose, le quali si intersecano formando una croce greca. Le anime si muovono lungo i bracci della croce, scintillando con maggiore o minore intensità a seconda del loro grado di beatitudine. Dalla croce esce un canto armonioso, ma Dante è in grado di percepire la dolcezza della melodia, non il significato completo dell’inno. Tuttavia le uniche parole che giungono al suo orecchio, "Resurgi" e "Vinci", indicano il valore liturgico del canto innalzato dagli spiriti combattenti, che esaltano Cristo come trionfatore della morte e del peccato.

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CANTO XV

I beati del cielo di Marte interrompono il canto perché Dante possa indirizzare loro le sue domande. Intanto una delle luci che costellano la croce scende lungo il braccio destro e la parte mediana fino ai piedi di essa e si rivolge al Poeta con tono particolarmente affettuoso: è l’anima di Cacciaguida, trisavolo di Dante, il quale, tuttavia, non riesce ad afferrare il senso delle sue parole, essendo queste troppo al di sopra delle umane possibilità di comprensione. Solo in un secondo tempo il discorso di Cacciaguida si chiarisce alla mente del Poeta, il quale viene invitato ad esprimere i propri desideri. Poiché Dante gli ha chiesto di poter conoscere il suo nome, l’anima beata glielo rivela. Subito dopo Cacciaguida delinea l’aspetto dell’antica Firenze, allorché la città viveva in pace e nell’osservanza di tutte le leggi morali, contrapponendo a questa serena visione quella della Firenze attuale, dilaniata dalle lotte e corrosa dall’immoralità. Cacciaguida ricorda i retti costumi dei Fiorentini antichi, la loro serena vita familiare, il culto delle memorie del passato. Nella parte finale del canto Cacciaguida, dopo aver ricordato il nome dei suoi due fratelli, Moronto ed Eliseo, e quello della moglie, parla della propria vita. Entrò al servizio dell’imperatore Corrado 111, dal quale fu fatto cavaliere. Lo seguì nella seconda crociata per la riconquista della Terrasanta e morì combattendo contro i Saraceni.

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CANTO XVI

Continua il dialogo fra Dante e Cacciaguida, che nel canto precedente ha tratteggiato l’immagine della Firenze del passato. Ora il Poeta gli rivolge una serie di domande precise: chi furono i comuni antenati, in quale periodo il trisavolo visse, quali furono le caratteristiche dell’ovil di San Giovanni nei tempi passati e quali le famiglie più ragguardevoli. Illuminandosi di gioia nel rispondergli, Cacciaguida rivela di essere nato alla fine del secolo XI, aggiungendo che le case della sua famiglia si trovavano dentro la prima cerchia di mura: garanzia, questa, di antica nobiltà. La popolazione fiorentina era assai meno numerosa di quella dei tempi del Poeta, ma di sangue più puro. Ora, invece, essa è contaminata dalla presenza di famiglie venute dal contado, che la città, nella sua progressiva espansione, è giunta ad assorbire. Anche il numero dei nobili è aumentato, poiché molti feudatari, vinti dal comune fiorentino, sono stati costretti ad abbandonare il contado e a trasferirsi in città. Origine di questi sconvolgimenti sociali e politici è l’intervento della Chiesa in campo temporale a danno degli interessi dell’lmpero, che non può più opporsi all’espansione dei centri cittadini. Tuttavia questa mescolanza di stirpi e di famiglie porterà ad un aumento delle discordie e delle lotte civili e, quindi, ad una rapida decadenza delle città. Nella seconda parte del canto Cacciaguida enumera moltissime famiglie nobili della Firenze antica, ormai scomparse o in via di decadimento e conclude il suo discorso ricordando le famiglie degli Adimari e dei Buondelmonti, il cui dissidio causò le prime divisioni della città.

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CANTO XVII

Dante rivolge al suo trisavolo una domanda piena di trepidazione e di ansietà: quale sorte gli riserva il futuro? Già molte volte, scendendo lungo i cerchi dell’inferno o salendo- per i gironi del purgatorio, ha udito oscure profezie che gli annunciavano anni di dolore e di esilio. Ora il Poeta chiede che la verità sulla sua vita futura gli sia rivelata con tutta la chiarezza permessa a un beato che contempla in Dio, prima che essi si avverino, gli eventi. Così risponde Cacciaguida: Dante dovrà abbandonare la città di Firenze, che si comporterà nei suoi riguardi come una crudele matrigna. Il suo esilio sarà opera soprattutto delle macchinazioni politiche di Bonifacio VIII. La colpa delle discordie che dilaniano Firenze sarà attribuita al partito vinto, ma presto il castigo divino si adatterà sui Neri e sul pontefice. Dante proverà tutte le sofferenze, le difficoltà, le umiliazioni della povertà e di una vita randagia. Presto sperimenterà anche la solitudine più completa, perché abbandonerà i suoi compagni d’esilio, incapaci e infidi. Troverà il suo primo rifugio a Verona; Bartolomeo e Cangrande della Scala diventeranno i suoi munifici protettori. Allorché Cacciaguida ha terminato di parlare, Dante confessa una sua dolorosa incertezza: se egli racconterà tutto ciò che ha visto nell’inferno e nel purgatorio molti gli diventeranno nemici e gli negheranno aiuto e ospitalità. Ma - risponde Cacciaguida - egli non dovrà avere alcun timore e dovrà "far manifesta" tutta la sua visione, perché i suoi versi costituiranno per tutti un vital nutrimento. Proprio perché gli uomini credono più facilmente agli esempi e alle argomentazioni evidenti, sono state mostrate al Poeta, nell’oltretomba, le anime di personaggi famosi.

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CANTO XVIII

Beatrice esorta Dante a distogliere la sua mente dal doloroso pensiero dell’esilio e a riporre ogni speranza nella giustizia divina: la bellezza di Beatrice e l’affetto che dimostra verso di lui sono tali che il Poeta prova un dolce smarrimento. Poi la sua donna lo invita a rivolgere l’attenzione ancora a Cacciaguida, il quale gli presenta alcune fra le anime più famose del cielo di Marte: Giosuè e Giuda Maccabeo, Carlo Magno e il paladino Orlando, Guglielmo d’Orange e lo scudiero Renoardo, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo.Dopo che Cacciaguida ha ripreso il suo posto nella croce luminosa di Marte, Dante e Beatrice ascendono al sesto cielo, quello di Giove. Le anime di coloro che nel mondo perseguirono in sommo grado la giustizia, disponendosi nella forma di lettere alfabetiche, scrivono nel cielo la frase: "Diligite iustitiam qui iudicatis terram ". In seguito altri spiriti luminosi scendono a disporsi nell’ultima M della scritta e la lettera, a poco a poco, si trasforma, assumendo la figura dell’aquila, simbolo dell’Impero al quale è affidata l’amministrazione della giustizia in terra. Il canto termina con una dura invettiva di Dante contro la cupidigia degli uomini di Chiesa, che con il loro comportamento offendono gravemente la giustizia, dimenticando la semplicità e la povertà predicate dal Vangelo.

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CANTO XIX

Le anime dei giusti, raccolte nella maestosa figura dell’aquila, ricordano d’aver meritato la gloria dei cieli per aver osservato sulla terra la giustizia e la misericordia, la quale è complemento indispensabile della giustizia. A loro Dante chiede la spiegazione di un tormentoso dubbio, presente in lui da lungo tempo e riguardante il mistero della predestinazione. L’aquila dichiara, innanzitutto, l’imperscrutabilità dei decreti divini: nessuna intelligenza umana potrà mai penetrare il mistero della sapienza e della giustizia di Dio. Poi risponde alle domande che più frequentemente gli uomini si pongono intorno alla predestinazione: perché sono condannati alla dannazione coloro che, non per colpa propria, non hanno mai conosciuto la fede e sono morti senza battesimo? La risposta è una sola: Dio, sommo Bene, non può volere il male e l’ingiustizia. Gli uomini devono essere paghi di questa verità: tutto ciò che Dio decide avviene secondo giustizia e amore: è più facile che entri nel regno dei cieli un pagano che visse secondo le leggi di natura e secondo i dettami della ragione che non un cristiano il quale non ubbidì ai comandamenti della sua fede. Nell’ultima parte del canto il Poeta leva una dura invettiva contro i malvagi reggitori d’Europa. Nel giorno del Giudizio Universale la loro disonestà e la loro corruzione appariranno scritte a piene lettere nel libro della giustizia divina.

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CANTO XX

Dopo che l’aquila ha concluso il suo discorso sulla predestinazione, le anime dei giusti riprendono i loro canti finché dal collo dell’uccel di Dio sale un mormorio che diventa ben presto voce. L’aquila indica a Dante gli spiriti che formano il suo occhio e che godono il più alto grado di beatitudine nel cielo di Giove. Il primo è Davide, l’autore dei Salmi; il secondo è Traiano, che conobbe, come sarà spiegato più avanti, anche il mondo della dannazione eterna; terzo appare il re ebraico Ezechia che, giunto in punto di morte, ottenne da Dio di poter vivere per altri quindici anni; il quarto spirito indicato è Costantino, che trasferì la capitale dell’impero romano da Roma a Bisanzio; nella parte bassa dell’arco sopracciliare dell’aquila si trova Guglielmo II, re di Sicilia e di Puglia; l’ultimo è il guerriero troiano Rifeo. A Dante, che ha manifestato il suo profondo stupore nel vedere due pagani, come Traiano e Rifeo, partecipi della beatitudine celeste, l’aquila spiega che il primo fu salvato per le preghiere di San Gregorio Magno e il secondo perché, amantissimo della giustizia, ricevette da Dio il dono di conoscere la futura redenzione. Occorre dunque che gli uomini siano cauti nel giudicare quelli che sono dannati e quelli che sono salvi, perché neppure i locati conoscono ancora tutti gli eletti.

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CANTO XXI

L’ascesa al cielo degli spiriti contemplanti, Saturno, avviene subito dopo che l’aquila formata dalle anime dei giusti ha terminato il suo discorso. Per la prima volta Beatrice non rivela con il suo sorriso l’avvenuto passaggio ad un cielo superiore, perché la potenza di tale sorriso avrebbe abbagliato completamente Dante. Nella settima sfera appare una scala luminosa la cui cima sembra toccare l’empireo. Le anime contemplanti scendono e salgono con ritmo incessante, ma una di esse resta accanto al Poeta e gli rivolge la parola, invitandolo a manifestare il desiderio che in questo momento occupa il suo animo. Due cose brama sapere Dante: perché proprio questo spirito si è fermato accanto a lui e perché in questo cielo i beati non innalzano alcun canto. Non solo nessuna mente umana - risponde lo spirito Interrogato - ma nessuna anima beata e neppure i Serafini, la gerarchia angelica più vicina a Dio, potranno mai spiegare i motivi che guidano il Creatore nella sua azione. Nessuno, quindi, potrà mai sapere perché solo determinate anime sono destinate a parlare con il pellegrino che sale attraverso i cieli. Quanto al silenzio dei beati di Saturno, essi tacciono per lo stesso motivo per cui Beatrice non ha sorriso: per non sopraffare le deboli facoltà umane di Dante.Ad una nuova domanda del Poeta questo spirito rivela di essere San Pier Damiano. Parla poi della propria vita, che trascorse nella solitudine e nella contemplazione nell’eremo camaldolese di Fonte Avellana, finché fu nominato cardinale e costretto a ritornare nel mondo. Contro la decadenza degli ordini monastici e la corruzione della Chiesa San Pier Damiano lancia una dura invettiva, alla quale tutti i beati del settimo cielo rispondono per manifestare il loro plauso - con un altissimo grido.

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CANTO XXII

Beatrice spiega al suo discepolo che il grido innalzato dalle anime del cielo di Saturno dopo l’invettiva di San Pier Damiano era una preghiera per invocare la punizione divina sulla corruzione della Chiesa e lo invita a rivolgere di nuovo la sua attenzione ai beati della settima sfera. Uno di essi, San Benedetto da Norcia, il fondatore del monachesimo occidentale nel VI secolo, dopo aver ricordato la famosa abbazia di Montecassino da lui fondata, indica a Dante le anime di due monaci, Macario e Romualdo. Allorché il Poeta chiede a San Benedetto di poterlo vedere nella sua figura umana, che ora è velata dalla luce che la circonda, il beato risponde che ciò sarà possibile solo nell’Empireo, dove tutti i desideri potranno essere appagati. Inizia poi - da parte del santo monaco - una fiera invettiva contro la corruzione dei suoi seguaci, che hanno abbandonato la pratica della regola benedettina. Dopo che i beati del cielo di Saturno sono ascesi, in un vortice di luce, all’Empireo, Beatrice spinge Dante a salire la scala sulla quale erano apparse le anime contemplanti. I due pellegrini entrano così nell’ottavo cielo, quello delle stelle fisse, e si fermano nella costellazione dei Gemelli, sotto il cui influsso Dante è nato. Invocata la protezione di queste gloriose stelle per il difficile compito che lo attende (rappresentare la visione finale del paradiso), Dante, per esortazione di Beatrice, volge lo sguardo verso il basso, allo scopo di misurare il cammino fin qui compiuto. Gli appaiono così sette pianeti e, in fondo, poco più grande d’ un punto, la terra.

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CANTO XXIII

Rivolta verso la parte orientale del cielo, Beatrice si prepara ad assistere allo spettacolo del trionfo di Cristo e dei santi del paradiso. La figura di Cristo appare come un sole dalla luce sfolgorante che illumina sotto di sé migliaia di altri splendori, i beati. Abbagliato da questa visione, il Poeta cade in un mistico rapimento, dal quale lo riscuote Beatrice per invitarlo a guardarla in tutto il fulgore della sua bellezza: ormai le forze visive ed intellettuali di Dante ne possiedono la capacità. La bellezza di Beatrice è così grande che il Poeta, ancora una volta, è costretto a procedere oltre senza descriverla. Esortato dalla donna amata Dante distoglie il suo sguardo da lei per volgerlo allo spettacolo che gli presenta l’ottavo cielo. Appare così la figura della Vergine Maria, circondata dagli apostoli. Mentre Cristo risale verso l’Empireo per non abbagliare ancora la vista di Dante, una luce discende dall’alto per disporsi, in forma di cerchio, intorno alla Vergine. E’ l’arcangelo Gabriele, che innalza un inno di lode a Maria, imitato subito da tutti i beati. In un secondo momento anche la Vergine, seguendo il Figlio, ascende all’Empireo, mentre la luce dei singoli beati si protende verso l’alto, quasi volesse seguire la rosa in che il verbo divino carne si fece. Il canto del "Regina coeli" chiude quest’ultima visione.

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CANTO XXIV

Alle anime che hanno accompagnato l’apparizione di Cristo nel cielo delle stelle fisse, Beatrice chiede di rivelare a Dante una parte della sapienza divina che esse possiedono. Poiché uno dei beati - San Pietro - è uscito dalla sua schiera per farsi incontro ai due pellegrini, Beatrice lo prega di interrogare Dante intorno alla prima delle tre virtù teologali, la fede. Il Poeta inizia il difficile esame davanti al principe degli apostoli rispondendo prima di tutto alla domanda: che cos’è la fede? Dopo aver richiesto alcuni chiarimenti relativi alle risposte ricevute, San Pietro esorta Dante a dichiarare se egli possiede o meno la fede. Ottenuta una risposta affermativa, il Santo interroga il Poeta intorno alle fonti dalle quali deriva la prima virtù teologale. Dopo che, concluso positivamente l’esame, tutti i beati hanno innalzato il canto del " Te Deum laudamus ", San Pietro esige da Dante una solenne professione di fede, al termine della quale l’apostolo manifesta la propria soddisfazione circondando per tre volte il Poeta con la sua luce e benedicendolo.

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CANTO XXV

Dal gruppo dei beati, dal quale si era già staccato San Pietro, esce un’altra luce, quella di San Giacomo apostolo, che interrogherà Dante intorno alla seconda virtù teologale: la speranza. Tre sono i quesiti che il Santo sottopone al pellegrino: che cos’è la speranza, in che misura la possiede, quali sono le fonti dalle quali l’ha ricevuta. Alla seconda domanda risponde subito Beatrice: nessun appartenente alla Chiesa militante spera con più intensità del suo discepolo. Agli altri due quesiti di San Giacomo risponde invece lo stesso Dante, e ogni sua affermazione si fonda su salde conoscenze teologiche. Il Poeta si sofferma particolarmente su ciò che promette la seconda virtù teologale: la risurrezione del corpo, il quale dopo il Giudizio Universale si ricongiungerà per l’eternità all’anima. Concluso il secondo esame di Dante, una voce, che proviene dall’alto, canta il versetto di un salmo davidico ("Sperent in te") e tutti i beati dell’ottavo cielo rispondono in coro. Infine una terza luce si avvicina a quelle di San Pietro e di San Giacomo: appare l’apostolo San Giovanni, al quale è affidato l’incarico di interrogare Dante sulla carità. Prima, però, San Giovanni nega di trovarsi in paradiso anche con il corpo, come vorrebbe una tradizione accolta da molti scrittori medievali.

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CANTO XXVI

Dante, in uno stato di momentanea cecità perché la sua vista è rimasta abbagliata dalla luce di San Giovanni, viene interrogato dall’Apostolo intorno alla carità. Principio e fine del suo amore - risponde il Poeta - è Dio. Infatti l’uomo è portato, naturalmente, ad amare ciò che è buono e il suo amore è tanto più grande quanto più è perfetto il bene verso il quale è diretto. Dio è il bene supremo: dunque a Lui è dovuto ogni amore. Queste continua Dante - sono le conclusioni alle quali è arrivata la filosofia di Aristotile e questo è il comandamento impartito dalla Bibbia. Rispondendo ad un’altra domanda dell’Apostolo, il Poeta dichiara che la sua carità trova alimento anche da altre fonti: dall’esistenza del mondo e delle creature, dal sacrificio di Cristo per riscattare gli uomini dal peccato, dalla speranza della beatitudine eterna. Legato all’amore verso Dio - conclude il pellegrino - è l’amore verso le creature. Mentre tutti i beati intonano un inno di lode a Dio, Dante riacquista la vista e si accorge che accanto a San Pietro, San Giacomo e San Giovanni è comparso un quarto personaggio. Beatrice rivela al suo discepolo che questo beato è Adamo. Il padre antico, per soddisfare una preghiera di Dante, risponde a questi quattro quesiti; quanto tempo è trascorso dalla creazione dell’uomo, per quanto tempo egli è rimasto nel paradiso terrestre, quale è stata la natura del peccato d’origine, quale la lingua creata e usata dal primo uomo.

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CANTO XXVII

Tutti i beati innalzano un inno di lode alla Trinità, mentre Dante prova un senso di smarrimento di fronte alla beatitudine del paradiso, che egli percepisce con lo sguardo e con l’udito. San Pietro, mentre la sua luce acquista un’intensa tonalità rosseggiante, inizia una violentissima invettiva contro Bonifacio VIII, al quale rivolge l’accusa di aver trasformato Roma, la città santa per tutti i fedeli, in una grande cloaca di vizi e di corruzione. La Chiesa - continua San Pietro - non fu fondata con il sangue di Cristo e allevata con il sangue dei martiri per diventare uno strumento di arricchimento in mano a pontefici indegni, né per provocare feroci divisioni e sanguinose lotte di parte fra cristiani (è, questo, un riferimento diretto alle fazioni politiche dei Guelfi e dei Ghibellini). Le chiavi pontificie devono essere simbolo dell’autorità spirituale del papato, non insegna degli eserciti papali mandati a combattere contro cristiani. L’immagine di San Pietro impressa sui sigilli dei papi non può essere adoperata per sigillare privilegi e benefici acquistati con la simonia. Tuttavia - conclude l’Apostolo - presto la Provvidenza porrà fine a questa rovinosa situazione della Chiesa. I beati, apparsi nell’ottavo cielo per assistere al trionfo di Cristo, risalgono, in grandiosa processione, all’Empireo, mentre Beatrice incita il suo discepolo a misurare il cammino percorso con il cielo Stellato nella costellazione dei Gemelli. Poi entrambi ascendono al Primo Mobile, l’ultimo dei cieli fisici, al di sopra del quale si trova solo l’Empireo. Dopo avere spiegato le caratteristiche di questa sfera, Beatrice, sull’esempio di San Pietro, rivolge una dura invettiva contro l’umanità, accusandola di mirare solo ai beni terreni. Anch’ella, tuttavia, preannuncia il prossimo, atteso rimedio a questa corruzione.

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CANTO XXVIII

Nel Primo Mobile appare a Dante un punto luminosissimo (Dio), intorno al quale si . muovono nove cerchi concentrici (i cori angelici). Il Poeta osserva che questi cerchi, dal primo al nono, aumentano in grandezza e diminuiscono in splendore. Tale fatto suscita in lui un grave dubbio: nell’ordine cosmico i cieli, quanto più si allontanano dalla terra (centro dell’universo), tanto più appaiono vasti, mentre, nei cerchi angelici, quello più vicino a Dio è il più piccolo. Poiché dalle intelligenze angeliche dipende e viene regolato il moto dei cieli, come può essere spiegata questa contraddizione? Nelle sfere fisiche - chiarisce Beatrice - la grandezza è in proporzione della potenza o "virtù" che viene infusa in esse dalle intelligenze angeliche, per essere poi trasmessa al mondo sottostante perciò il cielo più grande è quello più dotato di virtù e, quindi, più potenzíalmente capace di influssi salutari. Occorrerà, dunque, che i cieli più vasti siano governati dalle intelligenze angeliche più dotate di virtute. Per questo al cielo più grande, il Primo Mobile, corrisponderà il cerchio angelico più vicino a Dio: quello dei Serafini, il più piccolo di tutti. Poi Beatrice enumera a Dante tutti i nove cori angelici, raccogliendoli in tre gerarchie, ciascuna delle quali costituita da tre cori: Serafini - Cherubini’ - Troni, Dominazioni - Virtù - Potestà, Principati - Arcangeli - Angeli. Negli ultimi versi del canto Dante dichiara di accogliere, riguardo alle intelligenze celesti, la disposizione fissata da Dionigi l’Areopagita, respingendo quella di Gregorio Magno.

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CANTO XXIX

Nel canto XXIX Dante espone, per mezzo di Beatrice, i problemi principali riguardanti le gerarchie angeliche: dove, quando, come furono creati gli angeli; quando e perché avvenne la ribellione di alcuni di essi; quale fu il premio per quelli rimasti fedeli; per quale motivo sbagliano quei pensatori che attribuiscono alle creature angeliche le tre facoltà umane dell’intelligenza, volontà e memoria; il numero sterminato degli angeli e la diversa intensità con la quale godono la visione diretta di Dio. A Dante interessa soprattutto mettere in rilievo che la creazione degli angeli fu un atto gratuito dell’amore divino, che volle estrinsecarsi in altri esseri, e che le intelligenze angeliche, i cieli e la materia prima furono creati da Dio istantaneamente e simultaneamente. a proposito delle facoltà umane attribuite agli angeli, il discorso di Beatrice diventa polemico e le sue parole raggiungono un tono particolarmente aspro e duro. I cattivi predicatori del Vangelo, che hanno sostituito alle verità della fede cristiana le loro inutili ciance, sono rappresentati attraverso la grottesca figura del frate che predica dal pulpito con motti e con iscede, mentre il diavolo si annida nel bacchetto del suo cappuccio. Il canto si chiude con la visione di Dio che, pur rispecchiandosi in migliaia di creature angeliche, conserva la sua eterna unità.

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CANTO XXX

Scomparsi alla vista dei due pellegrini celesti il punto luminoso e i nove cerchi angelici ruotanti intorno ad esso, il Poeta si volge di nuovo a guardare Beatrice: la bellezza della sua donna è tale che egli si sente incapace di descriverla. Riprendendo a parlare, Beatrice rivela al discepolo che essi non si trovano più nel Primo Mobile, l’ultimo dei cieli fisici, ma sono ascesi all’Empireo. Nella decima sfera ha la sua sede Dio e godono l’eterna beatitudine le due "milizie" del cielo, quella degli angeli e quella dei beati, questi ultimi con lo stesso aspetto che avranno nel giorno del Giudizio Universale, allorché ciascuno riprenderà il proprio corpo. Dopo essere rimasto abbagliato dallo splendore dell’Empireo, il Poeta, riacquistando la vista, si accorge che i suoli occhi sono diventati capaci di sopportare anche la luce più fulgida. Dapprima Dante osserva un fiume di luce che scorre tra due rive fiorite. Dal fiume escono innumerevoli faville che, dopo essersi posate sui fiori, ritornano nel miro gurge dal quale erano uscite. Questa visione - spiega Beatrice - è solo un "umbrifero prefazio" di ciò che è realmente e che Dante, per le sue deboli capacità umane, non può ancora cogliere nella sua integrità. Allorché il suo sguardo ha preso nuovo vigore, il Poeta vede che quel fiume di luce ha assunto una forma circolare e che i fiori non erano altro che i locati e le faville gli angeli. La visione diventa sempre più chiara: l’Empireo ha la forma di un grande anfiteatro, i cui seggi sono occupati dai santi. Su un seggio vuoto Dante scorge una corona: quello - commenta Beatrice - è il posto riservato ad Arrigo VII, l’imperatore che tenterà, inutilmente, di porre termine alle lotte politiche che tormentano l’Italia, e che troverà nel pontefice Clemente V il suo più fiero avversario.

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CANTO XXXI

Il Poeta osserva con stupore e ammirazione, lo spettacolo tripudiante dell’Empireo. Mentre gli eletti, seduti sui loro seggi, contemplano la luce eterna di Dio, gli angeli volano, con moto incessante, come intermediari d’amore, dai beati a Dio e da Dio ai beati. Percorrendo con lo sguardo i gradini dell’immenso anfiteatro celeste, Dante scorge i volti, luminosi e trasfigurati dalla gioia, dei beati, osserva i loro atteggiamenti dignitosi e improntati alla più profonda serenità. Desideroso di rivolgere a Beatrice alcune domande, il pellegrino si volge verso di lei, ma al posto della donna amata trova un beato, in atteggiamento benevolo e paterno. San Bernardo da Chiaravalle, il più famoso mistico del secolo XII, particolarmente devoto alla Vergine. Egli, quale simbolo della scienza contemplativa, sostituisce Beatrice per guidare Dante alla visione finale di Dio. Poiché il Poeta vuole sapere dove si trova ora Beatrice, il Santo gli spiega che è ritornata al suo seggio, il terzo, a partire dall’alto, dopo quello della Vergine e di Eva, accanto a quello di Rachele. Dopo che Dante ha innalzato alla sua donna una fervida preghiera di ringraziamento per averlo guidato dal peccato alla salvezza eterna e dopo che ha invocato, ancora una volta, il suo aiuto, San Bernardo lo invita a percorrere di nuovo con lo sguardo tutto l’Empireo, per prepararsi alla visione di Dio. Dante - esorta il Santo - deve contemplare anzitutto la regina del cielo. La Vergine appare al pellegrino nel punto più alto della candida rosa, avvolta in una luce intensissima, circondata dal volo festoso di migliaia di angeli.

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CANTO XXXII

San Bernardo, che ha sostituito Beatrice come guida di Dante nell’Empireo, incomincia a spiegare l’ordinamento della candida rosa e la disposizione dei beati. Il seggio più alto è occupato dalla Vergine, ai cui piedi si trova Eva. Nel terzo scanno siede Rachele con Beatrice. Seguono Sara, Rebecca, Giuditta, Rut e, fino al gradino più basso, altre donne del Vecchio Testamento. Esse costituiscono così una lunga fila che taglia verticalmente, in due parti, l’immenso anfiteatro celeste: a sinistra, dove tutti i seggi sono ormai occupati, si trovano i credenti in Cristo venturo, a destra,: dove appaiono ancora dei posti vuoti, godono la loro beatitudine i credenti in Cristo venuto. In alto, nella parte opposta al seggio della Vergine, siede San Giovanni Battista. Sotto di lui appaiono San Francesco, San Benedetto, Sant’Agostino e altri teologi e fondatori di ordini religiosi. Le due parti dell’Empireo - continua San Bernardo - saranno occupate da uno stesso numero di beati, perché agli eletti del Vecchio e del Nuovo Testamento è stato riservato un uguale numero di seggi. La candida rosa appare divisa anche orizzontalmente in due parti uguali: mentre nella zona superiore appaiono le anime che si sono salvate per merito proprio, in quella inferiore si trovano le anime dei bambini che morirono prima di giungere all’età della ragione. Essi, nei primi secoli dell’umanità, da Adamo ad Abramo, ricevettero la salvezza grazie alla fede dei loro genitori; da Abramo a Gesù grazie al rito della circoncisione; dopo l’avvento di Cristo divenne necessario il battesimo, senza il quale i bambini morti precocemente sono relegati al limbo. San Bernardo invita Dante a guardare la Vergine, che appare circondata dagli angeli, mentre l’arcangelo Gabriele ripete, cantando, le parole dell’annunciazione: "Ave Maria, gratia plena".Il Santo riprende poi a presentare i beati dell’Empireo, indicando al suo discepolo gli eletti che occupano i seggi più vicini a quello di Maria. Infine afferma che, prima di volgere lo sguardo verso Dio, è necessario invocare l’aiuto della Vergine.

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CANTO XXXIII

San Bernardo innalza alla Vergine un’ardente preghiera, nella quale, dopo aver celebrato la bontà di Maria e la sua opera di intermediaria di grazia tra Dio e gli uomini, invoca una protezione particolare sul suo discepolo. Questi, che dal profondo dell’inferno fino alla sommità dell’Empireo ha potuto conoscere le diverse condizioni delle anime, è pronto ormai a contemplare la visione finale di Dio, purché la Vergine lo liberi da ogni residuo impedimento terreno. San Bernardo conclude la sua invocazione chiedendo a Maria di conservare la purezza di cuore che Dante ora possiede, mentre i beati, prima fra tutti Beatrice, ne accompagnano le parole congiungendo le mani in un silenzioso gesto di preghiera. Gli occhi della Vergine, fissi sul Santo, dimostrano che la sua supplica è stata accolta. Poi si volgono verso la luce eterna di Dio. San Bernardo, prima di scomparire, invita, sorridendo, Dante a guardare verso l’alto. Ma ormai il pellegrino non ha più bisogno di nessun incoraggiamento: il suo animo è pronto alla contemplazione divina. Dopo aver affermato che egli non ricorda quasi nulla della visione ricevuta, il Poeta rivela di aver visto l’essenza divina come una luce intensissima. Nel profondo di questa luce tutto ciò che è sparso e diviso nell’universo, appare fuso in mirabile unità, legato ad un vincolo d’amore. Dante, pur riconoscendo che le sue parole sono insufficienti ad esprimere quanto egli, in un solo attimo, ha potuto contemplare, descrive il momento in cui i suoi occhi videro, sotto forma di tre cerchi di uguale dimensione, ma di colore diverso, il mistero della Trinità. Nel secondo cerchio - rappresentante il Figlio - appare poi un’immagine umana, per significare il mistero dell’incarnazione. A questo punto la mente del Poeta, giunta alla soglia del mistero più grande, e incapace, quindi, di proseguire con le sole sue forze, viene illuminata dalla grazia divina, che le concede l’intuizione del mistero dell’incarnazione.

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