Critica - Opera Omnia >> I Precursori di Dante |
lalighieri testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere letterarie in prosa parafrasi traduzione Serbo a questo scritto la forma che ebbe quando la sera del 18 maggio 1874 ne feci lettura al Circolo Filologico di Firenze, aggiungendovi però qua e là alcuni brani che, per amore di brevità, furono allora intralasciati, e relegando nelle annotazioni tutta quella parte di erudizione e di corredo bibliografico, che parmi possa conferire al discorso pregio scientifico, senza alterare essenzialmente l'indole del lavoro. I PRECURSORI DI DANTE Quell'amplissimo ciclo di Leggende che ha per forma la Visione e per argomento il destino dell'uomo dopo la morte, fu, durante l'età media, generato da una viva e comune preoccupazione degli animi e delle fantasie. Come indizio di continua e persistente sollecitudine, come spiegazione, rinnovata sempre e non mai pienamente accolta, del gran mistero proposto dalla religione insieme e dalla morale, le visioni potrebbero già, di per sè stesse, offrire degno argomento di studio, a chi stimi utilmente speso il tempo nel ricercare ciò che a molte anteriori generazioni fu oggetto di meditazione assidua, fonte di soavi speranze o di tetre paure, termine di fede schietta ed ardente. Ma, per noi Italiani, coteste leggende hanno più particolare importanza, a causa delle relazioni in che si trovano col maggior nostro poema. Or sarà egli superfluo, pensava io accettando l'onorevole invito che mi veniva fatto, e cercando in mente il tema che, più conforme ai miei studj, potesse non riuscirvi discaro, sarà egli superfluo, parrà anzi quasi un abusare dell'altrui pazienza, questo tornare ancora una volta a discorrer di Dante? Ma, oltre la fiducia nella benignità vostra, due considerazioni hanno, se non dissipato, attenuato almeno i miei dubbj: l'una, che nella città nativa del poeta, e dove tutto parla della sua gloria non dovesse riuscir molesta la voce, per quanto umile, che ridicesse i suoi meriti: l'altra, che l'argomento mio particolare non era così trito e vulgato, che dovesse sembrare fastidiosa ripetizione di cose generalmente sapute. Non che esso mai non sia stato trattato finora: ma la critica italiana non ha forse ancora detto quanto sarebbe da dire in proposito, nè ha sull'argomento un compiuto lavoro. La controversia sulle maggiori o minori relazioni tra le visioni monastiche e la Divina Commedia nacque, è vero, in Italia su' principj del secolo (1) ma, come in tanti altri, casi, la critica forestiera la ampliò dallo studio di una sola leggenda, a quella di tutte le altre consimili, e disseppellì, e va tuttora disseppellendo e illustrando, monumenti atti a recare non poca luce sul nostro soggetto. Ond'è che ai nomi del Delepierre (2), del Wright (3), del Labitte (4) dell'Ozanam (5), noi possiamo contrapporre soltanto quello del Villari (6), autore di un notevole saggio su questo argomento: ma non sì tuttavia che, dopo tante diligenti ricerche; non sienvi altri fatti da registrare, e soprattutto non resti da meglio ordinare, e più per gruppi di categorie che per mera ragion cronologica, tutta quanta la vasta materia. Tale ordine migliore è appunto quello ch'io ho cercato di introdurre in tanta congerie di composizioni leggendarie: e tale è il lieve merito pel quale soltanto invoco benigna l'attenzione vostra alla presente lettura. Per rifarci innanzi alla mente quel mondo scomposto, anzi quasi ancor caos, dal quale Dante traeva fuori con mano sicura gli elementi del suo poema, non stimo dover risalire alle favole poetiche della età primitiva. In tutte le Teogonie, nelle indiane (7) al pari che nelle scandinave (8), in tutte le Mitologie, nelle persiane così come nelle germaniche, facilmente potremmo trovare, sia nel concetto generale, sia in alcune forme particolari qualche cosa di simile al tutto o alle parti della Divina Commedia. E come nei libri sacri delle antiche genti, così anche nelle primitive epopee popolari, è agevol cosa rinvenire tracce della credenza ad un luogo di pene e di ricompense, variamente raffigurato secondo le dottrine religiose, e più o meno particolarmente descritto dai teologi e dai poeti. Nè ciò deve recar meraviglia: chi pensi alla identità dell'umana natura in ogni periodo della storia, sotto qualsiasi plaga del cielo, in qualunque condizione di civiltà: al salutar freno che l'umana ragione si è posto, e che le religioni hanno variamente consacrato, colla fede in una vita futura; e alla innata curiosità che spinge l'uomo a penetrare questo massimo fra i misteri della nostra esistenza. E se guardiamo soltanto la religione e la letteratura dei Greci e dei Romani, dovremo dire che per gli uomini del paganesimo o pei pagani poeti, facile era la discesa all'Averno (9): facilis descensus Averno, dacchè lo vediamo volta a volta visitato da Bacco per dovere di figlio, da Ercole e da Teseo per carità d'amico, da Polluce per amor fraterno, da Orfeo per affetto coniugale (10); e dai Semidei e dagli Eroi si scende giù sino agli animali: alla zanzara (culex) del poemetto attribuito a Virgilio (11). La discesa all'Inferno diventa così necessario episodio di poema, di romanzo, di biografia: e come Omero e Virgilio vi conducono Ulisse ed Enea, così più tardi Apuleio la sconsolata Psiche, e Geronimo peripatetico il misterioso Pitagora. Col decorrer dei tempi e presso gli imitatori, essa diventa parte necessaria della macchina propria all'epopea: onde le evocazioni delle anime e le peregrinazioni all'Erebo nei poemi di Silio Italico, di Lucano, di Stazio, di Valerio Flacco, di Claudiano (12): ma per altri versificatori, già questi erano rumores vacui verbaque inania (13), e fiabe appena degne di fanciulletti in fasce (14). Presso i filosofi, però, tal sorta di racconti appare necessario complemento alla dottrina dell'immortalità dell'anima; come appunto vediamo in Platone, il quale, discorsa la salutare credenza, passa, nell'ultimo libro della Repubblica, a riferire la maravigliosa tradizione di Ero di Armenia. L'anima di questo soldato caduto in battaglia, narravasi esser tornata dopo dieci giorni al suo corpo, e aver detto di esser stata con altre condotta ad un luogo ove si aprono quattro porte: due verso il cielo, verso il Tartaro le altre. Là sedevano giudici, che mandavano a destra i buoni con una scritta sul petto, i malvagi a sinistra colla sentenza sul dorso. Ad Ero fu imposto di tornare al mondo e narrar ciò che avesse visto. Ed egli aveva scorto alcune anime salire all'Olimpo e discenderne, altre sprofondarsi nell'abisso o tornarne su coperte di bruttura: tutte poi fermarsi in quel luogo di comune riunione, raccontando le une con gemito, con riso le altre ciò che durante migliaia di anni avevan sofferto o gioito esse stesse, o di altre veduto. Così Ero aveva potuto conoscere, che ogni misfatto punivasi al decuplo, e la durata di ogni punizione era di un secolo: e al decuplo pure e per un secolo erano le ricompense date ai virtuosi. Ma a coloro che avevano onorato gli Dei e rispettati i genitori, maggiori erano i premj, come agli empj e ai parricidi maggiori le pene. E infatti un tiranno della Pamfilia, parricida e fratricida, sebbene già morto da mille anni, non aveva mai potuto risalire a quel prato, donde le anime partivano per andare a rivestire altri corpi (15): perchè ogni volta l'uscita gli era contesa da spaventevoli forme, che sembravano come di uomini infiammati, e che, legatolo, lo battevano, lo scorticavano, lo trascinavano fra i triboli, gridando ad alta voce i suoi misfatti, e minacciando precipitarlo per sempre nel fondo dell'abisso (16). Qui già troviamo qualche prenunziamento dei diavoli dell'inferno secondo le opinioni cristiane; ma l'altra tradizione riferita da Plutarco nell'opuscolo Dei tardi puniti dall'eterna giustizia, ha con sè un vero sentore delle novelle credenze. Il greco moralista, dopo avere anch'esso discorso della immortalità dell'anima, narra la favola di Tespesio. Fu costui nativo della Cilicia, macchiato d'ogni vizio, maladetto dagli uomini e dagli Dei. Parve subitamente morto per una caduta, ma il terzo dì risuscitò e si diede a miglior vita, come un peccatore dei tempi cristiani: e chiesto della causa di tal mutamento, narrò di essersi trovato in un'atmosfera mediano, e gran numero di anime girava sopra la sua testa e sotto i suoi piedi: quelle liete e contente, piangenti queste, e paurose. L'anima di un parente lo riconobbe e seco lo condusse, facendogli notare la trasparente lucidezza delle buone, e le macchie ond'erano ottenebrate le anime malvagie. Nere quelle degli avari: sanguigne quelle dei crudeli: dei lascivi, gialle: degli invidiosi, livide; e il fine della purgazione e del castigo sarà quando tutte appaiano tornate di un colore solo e di una chiara luce. Da un prato pieno di odori e di molli aure, ove le anime stanno in festa e in giuoco, la sua guida lo mena ove si ode la voce di una Sibilla prenunziante la prossima morte dell'Imperatore: più innanzi è il padre stesso di Tespesio, che con amari supplizi sconta i commessi delitti: indi sono demoni che scorticano i simulatori: anime fra loro attorcigliate e mordentisi a guisa di serpe, e tre stagni, d'oro bollente, di piombo freddissimo e di ferro, ove gli avari sono successivamente sommersi, fra mezzo ad altissime strida de' tormentati e de' tormentatori. L'ultimo spettacolo è delle anime che ritornano alla seconda vita, variamente disposte da spietati demoni che le accomodano ai nuovi corpi cui sono destinate: Fra queste ei riconosce Nerone, scelto ad informare il corpiciattolo di una vipera; ma perchè fu amico alla Grecia e alla sua libertà, era condannato soltanto a diventare stridula ranocchia. Il pellegrino non andò più oltre: chè una donna di meravigliosa bellezza, toccatolo colla verga, lo fermò, ordinandogli di raccontare quanto aveva visto: e allora, come sospinto da un vento impetuoso, Tespesio ritornò sulla terra alla vuota sua spoglia (17). Così le Visioni del gran mistero che è al di là dalla tomba, già di buon'ora cominciano a nascere, a diffondersi, a prender forme determinate: già abbiamo i rapimenti: già l'obbligo di riferire quel che si è veduto, a comune ammaestramento degli uomini: già un primo tentativo di stabilir certe pene, adattandole ai peccati: le visioni sono dunque ormai un patrimonio del genere umano, che attraverserà i secoli, sopravvivendo al mutar delle credenze, e che, cangiati alcuni particolari, resterà intatto in altre parti essenziali. Qualche semplice accenno, dovuto forse a credenze diffuse fra il popolo, si aveva già nei sacri libri ebraici; come là dove Giobbe parla della terra tenebrosa, ove sono ombre di morte ed orrore sempiterno (18), e Daniele (19) dell'eterno obbrobrio e dell'eterna gioia che sarà dopo l'ultimo dei giorni (20). Ma egli è veramente col Cristianesimo soltanto, che si forma quella lunga serie di scritture, quell'ampio ciclo leggendario che fa capo alla Divina Commedia, la quale tutte le chiude e comprende. Col Cristianesimo soltanto, il regno di Dio e quello di Satana principiano ad avere forma reale, e, nella loro specifica determinazione, si contrappongono l'uno all'altro. E se la tradizione dei volghi pagani, accolta da qualche filosofo o poeta, aveva cominciato a configurare le due regioni, e stabilito diverse sorta di premj e di pene, tuttavia, nel dogma religioso del paganesimo, il Tartaro null'altro è se non regno di ombre e di tenebre (21), e, salvo casi particolari (22), privo di corporei patimenti; mentre in regione appartata e verdeggiante stanno i saggi e gli eroi, che non però godono, anzi rimpiangono la perduta esistenza (23), e quasi se ne formano una immagine, continuando in quegli esercizi che predilessero in vita (24). Ma col Cristianesimo questo aspetto dei regni della morte cangia del tutto. Le anime dei defunti vanno o ai gaudj del Paradiso o ai tormenti della geenna, secondo il merito o il demerito. La bontà o la reità delle opere, non la fama o l'oscurità del nome, determina la diversità della loro sorte. Un rigido sentimento di giustizia, un profondo concetto dei compensi dovuti all'uomo che ha sofferto in vita i capricci della fortuna, detta a Cristo la sentenza che il regno dei cieli è pei poveri di spirito, e che sarà più facile ad un camello passare per la cruna di un ago, che ad un ricco entrare nel regno di Dio, ed anima la nota parabola del ricco epulone e di Lazzaro mendico (25). Cristo apre il regno dei cieli ai giusti, e discende all'Inferno a tôrne le anime dei patriarchi, rompendo le porte e le sbarre che invano gli si oppongono (26). Poi, al Paradiso e all'Inferno si aggiungono il Purgatorio e il Limbo: s. Dionigi determina il numero e la gerarchia delle schiere degli angeli (27): indi si ordinano, per contrapposto, le legioni dei diavoli (28): e degli uni e degli altri si sanno i nomi, de' principali almeno. I Mistici e i Teologi non lasciano così se non ben poco d'ignoto rispetto ai regni eterni; e a compier l'opera sopravvengono i Taumaturghi e i Visionarj, continuando per lunga età l'opera cominciata dal rapito di Patmo. S. Grisostomo ebbe a dire che se qualcuno tornasse dai regni della morte, ogni suo racconto sarebbe creduto (29); e molti infatti dissero di esservi andati, e le loro narrazioni ottennero fede presso i contemporanei. E tale sempre crescente produzione di visioni facilmente s'intende, considerata la natura di quell'età, in che il taumaturgo diveniva oggetto di terrifica ammirazione e di santa invidia, e il privilegio avuto lo rendeva venerabile al volgo, temibile ai possenti e ai malvagi. Poi, perchè i pensieri e i sentimenti predominanti in una età, sono insieme causa ed effetto dell'indole propria ai monumenti della parola, un istinto di inconsapevole imitazione faceva sì che una visione ne generasse altre in gran copia (30): dappoichè ogni religioso chiedeva istantemente nelle sue preci (31) di veder ciò che, sotto forma di sogno o di estasi, era stato concesso ad altro più fortunato confratello. La macerazione continua, le dure astinenze, il poco cibo, il sonno scarso e affannoso, la permanenza dell'intelletto in uno stesso pensiero, la tendenza della volontà ad un solo desiderio, generavano la visione; al modo di quelle illusioni ottiche che nascono dal costante fissare della pupilla sopra uno stesso oggetto. Date le particolari disposizioni di certi intelletti e le generali condizioni del tempo, il prodursi delle visioni fu, dunque, un fatto spontaneo e necessario. Ecco in qual modo si andarono accumulando nei primi secoli del Cristianesimo, e durante tutta l'età media, le descrizioni dell'inferno e del paradiso. Noi non le prenderemo tutte in esame, ma ci basterà sceglierne talune, le quali possono darci idea sufficiente di quel mondo meraviglioso che stava innanzi la fantasia dei contemporanei del poeta nostro, e che, colla speranza e col timore, già aveva preoccupato tutte le anteriori generazioni. E per meglio procedere in questo nostro studio, e ritrovare tutti gli elementi possibili dell'epopea dantesca, vedremo adesso quante forme nel decorso dei secoli e nel cangiar dei costumi, avesse assunto la visione. Distingueremo, adunque, tre forme diverse: delle quali diremo contemplativa la prima, politica la seconda, l'ultima poetica. Le Visioni della prima categoria si possono denominare non solo, rispetto alla forma, contemplative, ma anche, quanto ai loro autori, monastiche, dappoichè sono ispirate da quell'ardente zelo religioso che popolava gli eremi della Tebaide e i cenobj dell'occidente, e che, durante i primi secoli del Cristianesimo, fino al sorger dell'età moderna, generò sì gran copia di scritti claustrali. Se non che, mentre i più grandi ingegni di tal lungo periodo scrivono, o per difendere la fede dalle accuse dei pagani e dagli errori dei dissidenti, o per sottilmente esplicare la dottrina di Cristo, degli Apostoli, dei Concilj, e mostrarne le relazioni colla morale e colla storia, o per evangelizzar le turbe e convertire i barbari, e' par quasi che le visioni vengano lasciate, come in proprio, ai minori intelletti, e sieno letteratura particolare ai più oscuri anacoreti. In un periodo così ferace di eloquenti apologisti, di acuti teologi, di efficaci predicatori pareva forse indegno ai dotti il coltivare un genere, cui più che le forze della mente davano origine quelle della fantasia. Ma nella solitudine degli eremi e nel silenzio dei chiostri, coll'animo eccitato dalla trepidazione del futuro, e qualche volta dal rimorso del passato, fra le privazioni e le discipline, gli spiriti diventavano più agili e sottili, più paurose e lucide le fantasie; e raro è che altronde che dal deserto o dal cenobio partano le descrizioni dello stato delle anime dopo la morte (32). Ma di qui traggono ancora le visioni quell'indole gretta e puerile, quell'assenza di grandezza e di vera poesia che in esse si ritrova, essendone autori uomini di angusto ingegno e di assai scarsa cultura, nei quali l'immaginativa era dappiù che il criterio, e lo zelo maggiore assai della conoscenza o del rispetto di quelle norme dell'arte, che sole rendono immortali i frutti dell'umana fantasia. E, del resto, questa stessa facoltà era chiusa in strettissimi confini: pari a quelli tra' quali, fuggendo il secolo, volontariamente erasi ritratto l'anacoreta e il monaco, nè poteva attingere forze e forme da un mondo, o sconosciuto del tutto o dimenticato. Aggiungasi inoltre, che unico fine di questi semplici narratori era l'altrui edificazione, e l'invitare alla penitenza: e loro bastava gli animi duri e feroci rammollire, fortemente commovendoli colla novità e col terrore delle immagini. Hanno, per tali ragioni, tutte queste leggende carattere ingenuo, anzi fanciullesco, che di necessità ce le fa porre fuori della cerchia della vera poesia. La quale era bensì nell'argomento: non già nel modo com'esso veniva trattato. Certo, percorrendole tutte, qua e là troviamo qualche raggio di poetica luce, qualche forma che per dolce soavità o per sublime orridezza ci sorprende e ci ferma; ma il racconto manca di precisione: la descrizione difetta di quella virtù plastica, così propria di Dante che a noi par quasi di conoscere graficamente e architettonicamente i luoghi da lui rappresentati: tutta la tela è male ordita e peggio tessuta, con frequenti strappi e mal congegnate riprese: il sistema delle pene e dei premj corrisponde più al meschino intelletto dell'autore e alla mediocre casuistica conventuale, che non ad una meditata o felice armonia dei principj filosofici coi dogmi teologici, e le immagini e i paragoni che debbono aiutar le menti volgari a comprendere i misteri della vita eterna, fanno chiaramente vedere che l'autore, colla grossolana e corpulenta sua fantasia, non è molto da più di coloro che lo ascolteranno. Ond'è che l'ingenuità spesso si tramuta in goffaggine; e il candore in trivialità. Così, nella leggenda di Furseo, le teste dei diavoli sono rassomigliate a «caldaie, ovvero pentole laidissime e grosse (33)»: in quella di Tundalo, i peccatori da una specie di gran padella forata colano strutti nel fuoco ove sono consumati (34). Nei versi di fra Giacomino da Verona, Belzebù è detto il gran cuoco dell'inferno, che a quel ghiottone di Satana ammannisce cibo sanguinoso e palpitante di dannati confitti negli schidioni: e il re dell'inferno ne palpa le carni, e brontolando, le rimanda ad abbrustolire dell'altro (35). Nè più alto e condegno è il comune concetto della sede celeste; se, presso il medesimo sacro giullare, in paradiso Dio stesso insegna solfeggiare ai suoi fedeli (36), e, quasi in cristiano Valhalla, si gustano i frutti della immortalità, e si bevono le onde della gioventù sempiterna (37). Si direbbe quasi che, per immaginare il gran fuoco infernale, i semplici autori di quelle leggende non altro abbian saputo se non centuplicare nella lor fantasia quello che arde nelle grandi cucine dei popolosi cenobj, e per rappresentar le gioie del paradiso abbiano avuto ricorso a raddoppiare di più che mille milia il coro od il refettorio (38). Le leggende monastiche dovettero cominciare assai presto, sebbene non ne abbiamo copia di esempj nei primi secoli del cristianesimo. Dal che non devesi inferire che mancassero, sembrandoci tal fatto non ragionevolmente ammissibile: bensì piuttosto che la maggior parte non ne sia giunta fino a noi. E di ciò può anche in questo trovarsi la spiegazione, che la Chiesa non accettò mai tanto per sua taluna di queste narrazioni, che si menomasse la fede in altre consimili, e se non ne impedì la diffusione, neanche veramente la promosse e consacrò (39). Di più, l'umiltà stessa della origine monastica, dovette cagionarne la sollecita disparizione, in una età che non ci ha conservato tanti altri monumenti di maggior conto. Certo è questo, che le poche visioni dei primi secoli che si sono salvate debbono tal fortuna all'essere state accolte in opere di santi e dottori, i quali brevemente le intercalarono, o soltanto le citarono nelle loro scritture. Per tal modo s. Dionisio areopagita ricorda la visione di s. Carpio, trasportato in spirito sopra un'alta cima, dalla quale scorgeva, sul capo, Cristo in gloria cogli angeli, e, ai suoi piedi, diavoli e serpenti che cacciavano nell'inferno i pagani, ritrosi alla sua predicazione. Ed egli già si apprestava a gioire del loro martirio, e ad accrescerlo, maledicendoli, quando Cristo, più indulgente del suo seguace, a sè li attraeva, dicendosi pronto ancora a soffrire per la salute degli uomini (40). Così pure s. Agostino ci narra che s. Saturo salisse fino al trono del Signore, raffîgurato in un venerando vegliardo, a udire il santo, santo, santo che inneggiano i beati; e che santa Perpetua vedesse, per effetto di fervide preghiere, un suo minor fratello, sanato dalla lebbra che lo aveva spento anzi tempo, aggirarsi pieno di salute e di bellezza in una splendente dimora, bevendo acque miracolose entro una coppa d'oro: e una scala luminosa, ma stretta e circondata d'armi insidiose e taglienti, condurla al sommo del paradiso, donde il Buon Pastore le tendeva amorosamente le braccia, dandole a bere il latte delle sue pecorelle (41). E nel Dialogo di s. Gregorio troviamo la leggenda del guerriero morto di peste che, ritornato in vita, narra di essere stato condotto presso al ponte di un fiume nero e caliginoso, oltre il quale erano prati di fiori odoriferi e alberi fronzuti e belle abitazioni fatte di pietre aurate: ma lungo le acque, case fetide e di orrido aspetto. Quel ponte, tutti dovevan passarlo, ma solo i buoni vi riuscivano, cadendo gli altri nelle onde puzzolenti (42). Altrove lo stesso santo pontefice brevemente riferisce la leggenda di Reparato che fu «menato a vedere le pene dell'altra vita, e dissele e poi morì (43)»; di Pietro monaco che «narrava e diceva molte pene dell'inferno, le quali aveva vedute (44)»; di Stefano ferraio che, scambiato dai diavoli malaccorti con altro Stefano suo vicino, fu per sbaglio trascinato all'inferno, ove «vide molte cose le quali in prima non credeva (45)»; nonchè di quel fanciullo che fu rapito in cielo, e ne riportò il dono di intendere e parlare tutte le lingue (46). Ma in queste leggende, non sempre è ben chiaro ove sien collocati i regni della punizione: se, secondo il santo pontefice, il purgatorio del cardinale diacono Pascasio, fautore dell'antipapa Lorenzo, è posto nelle terme antoniane, in servizio di quelli che vi si bagnavano (47); e ad egual viltà di uffici è condannato, in altro luogo di bagni, l'antico signore di essi (48). Ma tutte queste leggende, alle quali potremmo aggiungere l'altra di santa Cristina, che, rapita al cielo, e datale la scelta fra lo starvi o il ritornare al mondo a riscattare colla penitenza le anime purganti, a questo partito misericordiosa si attiene (49), non che l'altra, assai posteriore, di s. Salvi che dalla voce di Dio è rimandato in terra, perchè necessario al bene della sua Chiesa, ed obbedisce piangendo (50), sono tutte assai brevi, anche per questo, che sembrano principalmente dirette a mostrar cogli esempj la possibilità di ottenere sempre il perdono dei proprj peccati, e mirano più a rinvigorire le virtù religiose, che non a contentare l'avida brama di conoscere ciò che all'uomo è negato, parlando al cuore anzi che alla fantasia. Le Visioni sono in questi libri soltanto parabole morali, come più tardi in altri diventeranno episodi meravigliosi, intromettendosi, prima, nella Leggenda di Barlaam e Josafat (51), ed ivi consertandosi alla primitiva lezione indiana che narra la santa vita del Budda (52), poi, nel romanzo di Alessandro, condotto dai favolatori innanzi alle soglie del terrestre paradiso (53), e, per ultimo, nel racconto cavalleresco di Guerrino il Meschino (54). Questi germi, intanto, si vanno svolgendo col passar degli anni e dei secoli: la materia si accumula, e si direbbe quasi che la fantasia umana, la quale da gran tempo ha aperto uno spiraglio nel cielo e nell'inferno, e aiutata dalla non mai soddisfatta curiosità vi tien fisso lo sguardo, lo vada sempre più allargando, e sempre scuopra qualche cosa di nuovo. Tali meravigliose narrazioni non soffrono ormai più, in quest'ultimo e ferace periodo della letteratura claustrale, di andare commiste con altri scritti, e se ne separano; ma se acquistano maggiore ampiezza, non sono però meno indistinte e confuse. Così tra il settimo e l'ottavo secolo, già vediamo apparire la più lunga Leggenda di tre monaci orientali, s. Teofilo, s. Sergio e s. Igino che, messisi in cuore di ritrovar il luogo in che fu l'uom felice, posto dove il cielo, all'ultimo orizzonte, combacia colla terra, dopo mille vicissitudini e mille pericoli, traversata l'Africa e l'Asia, oltrepassati i segni piantati da Alessandro all'estremo confine del mondo, giungono, ad un lago pieno di serpenti; donde escono voci come di popolo innumerabile che piangesse ed urlasse: ed erano coloro che negarono Cristo. Più oltre è un uomo di ben cento cubiti, legato ad un monte con quattro catene, e circondato da fiamme; indi, una femmina «nuda e laidissima e scapigliata» compressa da un sozzo dragone: per ultimo, una selva di molti alberi che «avevano similitudine di fichi», su' rami dei quali erano uccelli che con voce umana gridavano a Dio: «Perdonaci, messere, che ci plasmasti». Ma, fuggendo di là e procedendo più oltre, giungevano i monaci ad una chiesa, ove «uomini d'aspetto santissimo cantavano un canto celestiale con mirabile armonia», e la Chiesa «parea quasi tutta di cristallo»; e dall'una parte avea somiglianza di pietre preziose, dall'altro era colore di sangue, e dalla terza bianca come neve; e il sole ivi risplendeva e scaldava «sette cotanti più che nelle nostre contrade», e «l'alpe e i monti erano più alti», e «gli alberi e i frutti più grandi e belli e migliori... e aveavi uccelli più belli che facevano più dolci canti» che i nostri. Non però questo era il Paradiso terrestre, che sta più là «venti miglia»; e un cherubino coi piedi d'uomo, il petto di leone e le mani «come di cristallo» vieta l'appressarvisi, secondo loro avverte s. Macario, che aveva avuto l'istesso loro intento, e che dall'angelo n'era stato impedito. Or qui nulla è ben chiaro, nè persone nè luoghi; e se il lettore dimandasse qualche spiegazione, forse si sentirebbe rispondere come disse una voce a quei temerarj viaggiatori: «A voi non si conviene cognoscere li segreti giudicj di Dio: andate alla via vostra (55)». E simil mancanza di precisa determinazione ha pur la Leggenda di Furseo (m. 650), che, rapito dagli angeli, vede nell'atmosfera i quattro gran fuochi di mendacio, di cupidigia, di discordia e di empietà che ardono il mondo: e mentre è condotto per l'aria, i diavoli combattono coi suoi custodi per toglierglielo, finchè, rimasti perdenti, si fanno innanzi al trono di Dio, ove dialogizzando e sillogizzando, tentano cogli argomenti aver quella preda che non seppero conquistar con la forza (56). Ma queste ed altre sembrano non già lucide visioni di estatici, bensì affannosi sogni d'infermi. Si vede chiaro che la fantasia chiede la parte che le spetta in tali ascetici racconti, e li dipinge dei (57) suoi colori, ma essa è fiacca già prima di porsi all'opera. Le immagini sono prive di contorno, e invece di persone e luoghi abbiamo vuote allegorie e indefinite espressioni metaforiche. Il regno di Satana e quello di Dio non sono in queste leggende ben distinti fra loro: i diavoli non soltanto scorrazzano sulla terra, ma volano per l'aria, e penetrano fin nella reggia celeste. Il mondo di là è così scomposto e sformato come il mondo storico dove tutto è confusione, arbitrio, dissoluzione: ma allorchè questo, dopo la grande anarchia feudale, comincia a ravviarsi, e gli animi, passato il gran terrore dell'anno millesimo, principiano a ricomporsi, ecco formarsi anche le maggiori leggende, ecco le sedi dell'eterna e della temporanea dimora delle anime meglio configurarsi, e stabilirsi un ordine di pene e di premj che, lievemente modificandosi, rimarrà nella coscienza, dei fedeli e nelle tradizioni dei volghi. Dopo quei primi saggi, che quasi mai oltrepassarono le mura dei monasteri o i confini delle provincie in che videro la luce, vengono altre più ampie leggende che ci descrivono o taluna delle eterne regioni, o tutte tre insieme, e largamente si spandono per tutta la cristianità: veri abbozzi e prenunziamenti del poema dantesco, che presso i credenti, ebbero allora tanta accoglienza, quanta presso tutti gli uomini educati al culto dell'arte, ottenne più tardi la Divina Commedia. Queste maggiori Leggende sono la Visione di S. Paolo, il Viaggio di S. Brandano, la Visione di Tundalo, il Purgatorio di S. Patrizio, e la Visione di Alberico, delle quali parlerò partitamente, ma rapidamente. Apocrifa, ma forse fondata su antiche tradizioni, è la Visione di S. Paolo appartenente all'undecimo secolo. Di essa abbiamo un testo latino ancora inedito una versione francese del trovero Adam de Ros, e traduzioni in varie lingue europee (58). Nell'Epistola ai Corinti l'Apostolo avea scritto: Io conosco un uomo in Cristo, il quale sono già passati quattordici anni, fu rapito (se fu in corpo o fuor del corpo, io nol so, Iddio il sa) sino al terzo cielo. E so che quel tal uomo (se fu in corpo o fuor del corpo, io nol so, Iddio il sa) fu rapito in Paradiso, ed udì parole ineffabili, le quali non è lecito ad uomo alcuno di proferire (59). Sarebbe forse ardito affermare che da questo testo ove l'autore parla di sè, la fantasia popolare derivasse un rapimento di Paolo non che al cielo, anche all'inferno: certo è però esser questa la sola leggenda anteriore alla Divina Commedia che Dante mostri aver conosciuta, chiaramente alludendovi nel c. II. dell'Inferno, quando, dubitando di fidarsi all'alto passo, rammenta due sole discese d'uomini viventi nel regno dei morti: quella cioè virgiliana di Enea e l'altra di S. Paolo: andovvi poi lo Vas d'elezione, Per recare conforto a quella fede Ch'è principio alla via di salvazione. Ma io perchè andarvi? e chi 'l concede? Io non Enea, io non Paolo sono. Secondo questa Visione, Paolo è condotto da un angelo a vedere le pene infernali, che dureranno a detta dell'ingenuo autore, al quale cotesto numero rappresentava l'infinito (60), quarantaquattromila e cento anni. E prima, egli scorge un albero immenso al quale pei piedi, per la lingua, per gli orecchi stanno sospesi gli avari. Più oltre è una ardente fornace destinata agli impenitenti: quindi un torbido fiume, attraversato da un ponte «sottile colpe un capello». Questo ponte che già trovammo, e che ritroveremo ancora in altre leggende (61), è dapprima mentovato (62) nelle tradizioni persiane, donde passò ai credenti di Maometto, e dall'Oriente poi venne nella letteratura cristiana dell'età media (63). A capo del ponte sta Belzebù, colla immane bocca spalancata, entro la quale sono attratte le anime dei peccatori, che ne escono poi infiammate come zolfo, annerite come carbone (64). Nel fiume i dannati stanno alcuni sino al ginocchio, altri sino alle ciglia, come i tiranni e i traditori di Dante, secondo la gravità dei loro misfatti. Seguono altri tormenti e altri tormentati, che tralasciamo di ricordare; finchè, per ultimo, l'Apostolo giunge a un pozzo suggellato da sette suggelli, ove son sepolti coloro che negarono la divinità di Cristo. Ma questa terribile leggenda s'illumina in fondo di un raggio di luce celeste. Alzando gli occhi, s. Paolo vede gli angeli menare in paradiso l'anima di un giusto (65), mentre i demoni ghermiscono quella di un dannato. Quest'inferno dal quale si vede il cielo, certo rassomiglia poco a quello di Dante; e se la visione dantesca ha tutta l'indole di un viaggio, questa di s. Paolo potrebbe ben dirsi un sogno immaginoso. Ma intanto i reprobi sollevati a speranza dal grido di gioia che echeggia nell'alto, pregano umilmente l'Apostolo che interceda per loro, e il Miserere proferito da milioni di bocche passa i quattro cieli, e giunge sino al trono di Cristo. Il quale, scendendo giù, e duramente rampognando quei miseri, pure, per amore del suo discepolo, concede loro requie ebdomadaria, dalla ora nona del sabato alla prima del lunedì; e, in mezzo alle recriminazioni dei demoni e alle benedizioni dei dannati, la santificazione della Domenica, che sembra esser il concetto animatore di tutta la leggenda (66), si estende fino ai regni di Satana; e la cessazione del lavoro sopra la terra corrisponde, sotto terra, alla interruzione delle pene. Allo stesso secolo spetta probabilmente (67) anche il Viaggio di S. Brandano (68) che l'Ozanam, con arguta frase, chiama odissea monastica (69). È desso il parto della fantasia di un monaco, le cui forze però erano miseramente circoscritte dall'angustia della vita cenobitica. Nata in Irlanda questa leggenda si diffuse per ogni parte d'Europa, e fu via via raffazzonata da' varj volgarizzatori, che credettero accrescerne il pregio allungandola, e infarcendola sempre di altri episodj. Ma nella povertà della loro immaginazione, costoro non sepper far altro se non amplificare e ripetere gli stessi racconti; e i monaci viaggiatori, secondo ben nota il Villari, «incontrando un gran numero di isole, ripetono sempre le stesse operazioni: mangiano, bevono, si lavano i piedi, sentono la messa, dormono e ripartono (70)». Tuttavia la leggenda, come quella che narrava fatti meravigliosi e descriveva regioni sconosciute, meschiando i colori ascetici coi romanzeschi, e insieme consertando le tradizioni dell'antichità (71) colle favole orientali (72) e le pie narrazioni dei chiostri, non solo incontrò favore presso le plebi, ma fu generalmente ritenuta vera anche rispetto alle condizioni dei luoghi descritti. L'isola di s. Brandano, sulla sola asserzione di questa scrittura, venne segnata sulle carte (73), e menzionata nei libri geografici del tempo (74): ne è fatta parola perfino in pubblici trattati, e in quello di Evora dalla corona di Portogallo, che avrebbe dovuta possederla, fu ceduta a quella di Castiglia, che non seppe mai trovarla, tanto che fino nel 1721 dalla Spagna partivano navi alla ricerca di essa. Fatto strano, ma non meraviglioso: chi ricordi almeno, come ai dì nostri, dopo che Stefano Cabet ebbe descritto il suo immaginario viaggio in Icaria, sede beata dell'uomo nello stato di natura non pochi infelici credettero alle sue parole, e andarono cercando di là dall'Oceano una regione e una felicità introvabili. Così nulla si cangia nel mondo, se non l'apparenza delle cose, perchè l'uomo resta sempre il medesimo: e se nei secoli scorsi, anelando alla spirituale perfezione, ei pensò, nel suo orgoglio, di occupare prima del tempo il celeste paradiso, ora follemente prosegue la chimera di una società perfetta, nella quale il paradiso sia su questa terra. Eterne illusioni, che, come il vento della vanità; descritto dal nostro poeta, mutano nome perchè mutan lato! Fra mezzo a molte inezie; che or destano il riso or conciliano il sonno, questa leggenda racconta come S. Brandano; messosi in mare con altri compagni, dopo una navigazione piena di avventure, maravigliose talora, tal'altra triviali, approdasse ad un'isola detta il Paradiso degli uccelli, perchè ivi appunto dimoravano, trasformati in volatili, quegli angeli pusillanimi che, nel dì della lotta, non fur ribelli nè fur fedeli a Dio, ma per sè foro. Essi cantano le lodi di Dio, e sono angeli per tutta la settimana; ma la Domenica sentono rinascersi le bianche piume sul dorso. Navigando più oltre, il nuovo Ulisse giunge ad altra isola della quale vedonsi da lunge le ardenti fucine, e odonsi i colpi dei pesanti martelli, che, come quelli dei ciclòpi omerici, battono incessanti sulle incudini. È questa l'isola dell'Inferno, ove i diavoli giorno e notte tormentano le anime, che gridano sotto le percosse dei ferri spietati. I viaggiatori non osano, spaventati dai fieri abitatori e dall'orrore dei tormenti, approdare all'isola; ma, allontanandosene, trovano in uno scoglio deserto un uomo villoso e deforme; e qui abbiamo il solo notevole episodio della leggenda. Questi è Giuda Scariotte, il traditore del maestro ed amico, sul capo del quale la immaginazione popolare ha aggravato, come su quello di Edipo, le maledizioni di parricida e di incestuoso (75), ma cui la misericordia divina concede di aver requie dai tormenti ogni domenica, più il Natale e le feste di Maria, e su codesto scoglio, sebbene divorato da un'intima fiamma, gli par d'essere in Paradiso (76). Così l'infinita pietà discende mitigatrice sul massimo dei peccatori, e con questo esempio fa chiaro come niuno debba mai disperarsi di conseguirla. Ma qui lasceremo andare i monaci al loro viaggio, che s'intreccia di maraviglie naturali e soprannaturali, finchè, visitata la terra di ripromissione e il Paradiso delle delizie, ritornano al loro monastero nella verde Erina. E in Irlanda e nei cenobj dell'isola devota siamo sempre colla Leggenda di Tundalo (77). Di costui narrasi che, vivesse nel 1149, e fosse vizioso e violento, come il Tespesio di Plutarco, e al pari di lui morisse di morte subitanea. Ma l'anima, dopo una mirabile peregrinazione al mondo di là in compagnia di un angelo, fece ritorno al suo corpo. Intanto gran cose aveva visto: nel fuoco e nel ghiaccio gli insidiatori, in un fiume di zolfo i superbi, e a capo del solito strettissimo ponte, varcato felicemente, fra molti che cadono, da un solo prete, una bestia mostruosa colla bocca spalancata, nella quale potrebbero entrare a un tratto nove mila uomini armati di tutto punto. Il nome di questo mostro è Acheronte, e divora gli avari: e qui è da notarsi come già le denominazioni dell'inferno classico entrino a far parte dell'inferno cristiano (78): il che avverrà poi ancor più largamente nel libro del nostro maggior poeta. Più oltre, è altra bestia con due piedi e due ali, collo lunghissimo, ferreo rostro e unghie ferrate, dalla cui bocca escono fiamme inestinguibili, e che siede sopra un lago congelato, e le anime le entrano in corpo, ed essa ingravida di loro e loro di essa, generando serpi che poi le tormentano. Or non par di vedere in questo mostro un lontano progenitore del Lucifero dantesco, confitto nella ghiaccia, che si forma dal ventilare delle sue ali sulle acque di Cocito (79)? Ma il Lucifero della leggenda di Tundalo è rappresentato sopra una gratella ardente, e i dèmoni stessi, soffiando, attizzano il fuoco che tutto lo consuma. Legato per tutte le membra, ei si volge dolorando fieramente, or sur un lato or sull'altro: e, per lenire il tormento, colle cento sue mani abbranca migliaia di anime che gli stanno attorno: e come fa il villano assetato coi pieni grappoli, le stringe e comprime, e a chi tronca il capo e a chi i piedi, e poi sospirando e sbuffando, le sparge, come, faville, per diverse parti della geenna; ma quando ritrae a sè il fiato, quelle gli son attratte nella bocca orribile, ed ei le maciulla e divora (80). Nella invenzione dei tormenti infernali mai forse la umana immaginazione fu così varia e potente, come quella dell'anonimo monaco autore di questa leggenda. L'inferno di Tundalo è ben più tetro di quello di Dante, ove almeno l'autore e il lettore a volta a volta si commuovono ai casi di Francesca e di Ugolino, si esaltano dinanzi ai grandi spiriti dell'antichità, sentono la nobiltà delle opere magnanime con Farinata, e il valore di quelle dell'ingegno con Brunetto Latini. Nella leggenda di Tundalo il solo sentimento eccitato è quello del terrore; con barbaro e veramente medievale raffinamento di martirio, le anime dei dannati sono prima condotte a vedere i gaudj degli eletti, perchè si addoppi loro la pena: ut magis doleant; i diavoli sono armati di spiedi e di tridenti infiammati, neri come carbone, con occhi come lampade ardenti, e code di scorpioni e ali di avvoltoio, e fatta al fuoco massa di molte anime, se le gettano, quasi giuocando alla palla, riparandole sui forconi (81); ma le lagrime dell'anima peregrina, che già presente e in parte prova gli orribili tormenti infernali, paiono riserbate soltanto ai suoi proprj dolori. E se qui, come nella Divina Commedia, l'autore parla di sè e dei suoi fatti, noi perdoniamo a Dante, già prima che l'angelo gliela cancelli, la colpa della superbia, ch'ei magnanimo confessa: ma che diremo di Tundalo, che si accusa di aver rubato al suo compare una vacca (82), e l'angelo lo obbliga a passar con quella, divenuta selvaggia e feroce, lo stretto ponte dell'abisso? Sul quale a grande stento passano finalmente la bestia e Tundalo; che, dopo molto girare nel buio infernale, giunge ai purganti e agli eletti, d'onde l'angelo lo rimanda alla spoglia abbandonata, ordinandogli di narrare ciò che ha visto. E pur sempre da un chiostro irlandese venne alle plebi cristiane di tutta Europa l'altra Leggenda del Purgatorio di s. Patrizio (83). Una antica tradizione recava che nel sesto secolo, per convincere gli Irlandesi ancora pagani, s. Patrizio avesse aperto una miracolosa caverna che menava all'altro mondo, e nella quale più tardi, nel duodecimo, volle entrare un cavaliere di nome Ovven o Ivano (84). Preparato acconciamente con digiuni e preghiere, ei si avventura in questa specie di antro di Trofonio (85), e dopo aver camminato lungamente nelle tenebre, giunge ad una vasta e luminosa corte, simile ad un chiostro, ove trova appunto alcuni frati che lo confortano dei loro ammonimenti pel difficil viaggio. Ma ecco, spariti i monaci, sopraggiungere legioni di diavoli che vorrebbero precipitarlo nell'abisso, e dai quali si libera invocando il nome del Signore. Così percorre tutti i campi sotterranei: sempre ghermito dai diavoli, e sempre allo stesso modo sfuggendo alle unghie loro. Vede taluni crocifissi in terra, come il Caifasso dantesco: altri divorati dai serpenti, come i ladri della Divina Commedia: altri, come i lussuriosi del quinto dell'Inferno, esposti nudi ai buffi di un vento ghiaccio e impetuoso, e, come Farinata, altri ancora gettati in fosse infuocate. Vi sono dannati confitti nel ghiaccio, come Ugolino, o immersi in fiume di metallo liquefatto e uncinati dai diavoli quando alzino la testa, come i barattieri. Anche quì il ponte stretto e sdrucciolevole: anche quì la bocca mostruosa che colle folate dei sospiri rigetta le anime, che riddan per l'aria, e poi di nuovo sono aspirate, come in altre leggende (86). I visionarj, cominciano a copiarsi fra loro (87), ed è naturale; perchè l'immaginazione umana si isterilisce e si stanca, e quella dei visionari era già piena delle forme trovate dai loro predecessori, sicchè rivedevano quello che già altri aveva visto; nè forse quì vi ha di nuovo, o almeno di molto terribile, se non una immensa ruota uncinata e ardente, che girando continua e velocissima, stritola e macina i peccatori: Ma dalle altre questa leggenda diversifica nel non dir mai le varie sorta di peccatori, e nel fare che il ponte anzichè all'inferno guidi al paradiso deliziano: luogo di riposo alle anime già purgate d'ogni macula e degne di entrare in cielo, ed ove, come in quello di Dante, si presenta innanzi agli occhi del pellegrino una gran processione divotamente salmeggiante. Due arcivescovi lo accompagnano su un monte, dond'ei scorge la porta del paradiso simile all'oro fine ch'è nella fornace ardente. Allora una fiamma di fuoco celeste gli scende sul capo, e congedato dalle sue guide, ripassando per la via già percorsa, a malincuore Ivano ritorna nel mondo (88). Sono quasi cinquant'anni dacchè fra noi si agitò la questione se Dante avesse tolta la materia del suo poema da una Visione, quella di Frate Alberico, che venne diseppellita dagli archivj del cenobio cassinese (89). Ma è assai dubbio se cotesta narrazione varcasse mai le soglie della badia benedettina, ove poi è quasi certo che Dante non ponesse mai il piede. Come tutte le altre, la Visione di Frate Alberico è in gran parte congesta di elementi tradizionali, con qualche episodio in proprio; e pur di essa daremo un rapido sunto. Rapito per le chiome da un colombo e guidato dall'apostolo s. Pietro e da due angeli, Alberico ancor fanciullo, vien condotto a visitare l'inferno e il paradiso. Dopo il Purgatorio dei parvoli (90), egli scorge all'inferno i lascivi, sepolti nel ghiaccio, ma or più or meno, come i traditori di Dante, secondo il grado del peccato: infisse per le mammelle a lunghi e spinosi rami le donne che negarono il latte ai fanciulli, e su roghi ardenti sospese le adultere; poi i violatori dei giorni festivi, costretti a salire e scendere una scala infuocata: i tiranni avviluppati, come Ulisse e Diomede, entro globi di fuoco: gli omicidj in un lago di sangue bollente, come i violenti della Divina Commedia, colla quale Alberico concorda mettendo nel fuoco i simoniaci. Coloro che lasciarono l'ordine ecclesiastico o la regola monastica, soffrono, come i ladri danteschi, i morsi di atroci serpenti; nel liquido metallo ardente sono i sacrileghi. Tralasciando altri episodj, che nella ripetizione di pene quasi consimili, mostrano nell'autore più buona volontà che vera forza di fantasia, diremo che nel mezzo dell'inferno, ove stanno già condannati senza necessità di giudicio, Giuda, Anna, Càifas ed Erode, è Lucifero legato da una gran catena, e confitto entro un gran pozzo. Come i diavoli di Dante, quelli di Alberico tentano acciuffarlo cogli uncini, allorquando s. Pietro lo lascia solo un momento, per correre in fretta a fare il suo ufficio di portinaio, e aprir le regge del paradiso ad un'anima che, passando per l'inferno e assaggiandone per un istante le fiamme, deve entrare nel soggiorno degli eletti. Al quale poi giunge anche, traversato il consueto ponte sottile, il nostro fraticello, e lo vede pieno di luce e di fragranze; e intorno ad esso, le anime dei giusti che attendono il giudizio finale; dopo il quale saliranno alla beatifica visione di Dio, concessa ora soltanto agli Angeli e a' Santi. Fra' quali è già gran numero di cenobiti seguaci di s. Benedetto: e l'Apostolo che guida Alberico fa lunga apologia del monachismo: la quale, se può parer fuori di luogo, serve però a meglio chiarire l'origine e l'indole della scrittura. Dopo averlo rapito al primo cielo, donde gli espone l'ordine degli altri, s. Pietro mostra ad Alberico le cinquantuna regioni nelle quali è diviso il mondo, e che non sapremmo bene a qual geografia corrispondano: indi, messagli una carticella scritta in bocca (91), lo rimanda al suo chiostro, ingiungendogli di riferire le cose vedute, e di offrirgli ogni anno un cero benedetto, alto quanto la sua statura (ad mensuram staturae tuae): e così puerilmente ha termine la Visione. Della quale già via via abbiamo notate alcune rassomiglianze col poema di Dante, e altre potrebbero aggiungersene. Così fu osservato che ambedue i viaggiatori hanno una guida nell'arduo viaggio: che Lucifero è da ambedue chiamato col nome di verme (92): che la selva dei suicidj danteschi somiglia a quella di Alberico, plena subtilissimis arboribus... quarum omnium capita acutissima erant et spinosa: che Pietro ambedue ammaestra nelle cose della fede, e così via (93). Ma fossero anche maggiori e più strette le corrispondenze, non diremo che, più che da altra, da questa leggenda, la quale del resto, nel suo disordine, dà prova del volgare ingegno di chi la scrisse, abbia tolto Dante forme ed elementi al suo poema. Tutte le notate visioni sono anelli di una gran catena che risale a tempi antichissimi: e, fors'anche, Dante potè ignorare alcuno di questi non sapidi frutti della letteratura claustrale (94); ma ben conosceva egli, senz'altro, come la coscienza e l'immaginazione dei suoi coetanei fosser replete di così fatte rappresentazioni della vita futura. Per compier l'esame di quel mondo fantastico che, in diverse forme atteggiato, era presente alla immaginazione del poeta, quando, per compiere un giuramento affettuoso, poneva mano alla Commedia, giova adesso conoscere la categoria di Visioni che dicemmo politiche. Allato alle visioni contemplative, nate da allucinazione sincera, o dettate da zelo di spirituale perfezionamento, altre ne sorgono ben presto, che, sotto l'involucro religioso, celano fini ben differenti. Queste, non più di monaci devoti, ma sono opere principalmente di ecclesiastici involti negli umani negozj, i quali se ne fanno strumento tanto più terribile e poderoso, quanto maggiormente il secolo è proclive a ciecamente credere ciò che in esse è narrato. Così all'estatico rapimento del devoto, succede il sogno premeditato del politico, e la visione diventa acconcissima non solo a punire i persecutori della religione (96), ma anco a santificare il possesso dei beni terreni, a magnificare e premiare i dotatori dei monasteri, a minacciare i renitenti e i ribelli; e spaventarli con terribili esempj. La visione di questa forma non invita tanto al pentimento del peccato, quanto al pagamento delle decime, e più che la religione tutela le immunità degli ecclesiastici. Seguendo le vicissitudini della Chiesa, dal momento che essa divenne un potere umano, e alla direzione delle anime volle unire il governo della civile società, la visione diviene arma dei vescovi contro i principi, e via via dei monaci contro i vescovi (97), e degli ordini religiosi l'un contro l'altro (98). Allora gli abissi si popolano di coloro che peccarono anzichè contro Dio, contro il pontefice o il presule; e nel paradiso abbondano, più che i confessori ed i martiri, coloro che arricchirono il clero, e ne furono devoti e mansueti servitori. Uno dei più antichi esempj di queste visioni, nelle quali vediamo menzionati per nome, ad ammonimento o pena, i potenti della terra, si è quel passo del Dialogo di s. Gregorio in che si narra che un monaco dell'isola di Lipari, il giorno in che Teodorico moriva in Ravenna, vide volar per l'aria tre anime. Legato e scalzo, il signore d'Italia era trascinato da Giovanni papa e da Simmaco patrizio, da lui già perseguitati e fatti uccidere, e gettato entro la bocca del vulcano. Or non si direbbe che questa leggenda sia quasi la postuma vendetta dell'uomo romano e del cristiano ortodosso, contro il re barbaro e l'eretico seguace di Ario (99)? Ma il tempo nel quale questa specie di visioni si fa più frequente ed ha maggiore efficacia, è quello tenebrosissimo del feudalismo carolingio: tempo nel quale fu portato al massimo fastigio la preponderanza del clero sull'autorità laica. E un primo notevole caso è quello narrato da Incmaro, arcivescovo di Reims (100), il quale in una lettera al clero e ai fedeli della sua diocesi, riferisce una visione avuta dal suo vassallo Bernoldo. Questi, durante uno svenimento, era stato trasportato in luogo fetido ed oscuro, ove il defunto re Carlo il Calvo giaceva nel fango e nella putredine. Già i vermi gli avevano divorato le carni, e non restavangli intatti se non i nervi e le ossa. Dopo aver chiesta a quel vassallo del suo vassallo che, per pietà, gli ponesse a guisa di capezzale una pietra sotto la testa, Carlo soggiungeva: - Va a dire al vescovo Incmaro ch'io sono qui per non aver seguito i suoi consigli: ch'ei preghi per me, ed io sarò liberato. - A Bernoldo pareva di andar al vescovo e recargli l'ambasciata, e poi tornar a Carlo, e vederlo non più scheletro spolpato, ma re vestito del reale ammanto. Flodoardo, cronista del tempo, ci fa sapere che l'arcivescovo fece giungere la sua lettera ove era più necessario che fosse nota; ed infatti, essa conteneva una lezione politica rivolta non tanto al defunto re, quanto invece al suo successore (101). Di un altro Carlo, il Grosso, parla un'altra visione, riferita dagli storici del IX secolo, come avvenuta al re stesso. Secondo questa narrazione, il re tornando dalle preci mattutine, vede apparirgli dinanzi una forma bianca, la quale gli pone fra mani un filo raggiante, che lo guidi, come il filo di Arianna, attraverso il laberinto infernale (102). Carlo scorge puniti i vescovi malvagi che perfidamente consigliarono suo padre: poi i tristi compagni e cortigiani che lo spinsero nella via della perdizione. Indi giunge ad una valle, da una parte della quale è un giardino fiorito, e dall'altra come un forno ardente. Qui erano parecchi dei suoi antenati in preda ai maggiori tormenti: e, dentro un bacino di acqua bollente, Lodovico il germanico, il padre stesso di Carlo. L'intercessione dei santi apostoli Pietro e Dionigi aveva alquanto alleviato la punizione, che potrà diminuire ancora se con messe e offerte, tu - egli dice - ed il tuo clero mi aiuterete. Ma tu però fa penitenza dei tuoi peccati, altrimenti per te è preparato il bacino che mi sta presso -. Salendo poi al paradiso, Carlo vi trova lo zio Lotario assiso sopra un gran topazio, e quel beato spirito lo fa sicuro della liberazione del padre; - ma, gli soggiunge, la nostra razza è perduta, e tu stesso fra poco cesserai di regnare -. A questo punto, come nel Machbet dello Shakspeare, apparisce il fantasma del futuro successore del re, la cui anima ritorna in terra. Che Carlo stesso avesse, e poi raccontasse la visione, non sembra probabile; ed è piuttosto da riconoscere in essa una abile impostura di quella parte politica che mirava a spossessar Carlo, e affidar le redini del potere al nipote di lui, il principe Luigi figlio di Bosone (103). Altre leggende consimili provano la stretta connessione che ebbero tra loro in cotesta età, la visione e gli interessi mondani. Ne ricorderò alcune che mirano evidentemente ad eccitar lo zelo dei ricchi, e più specialmente dei principi, alla fondazione di chiese e dotazione di abbazie. In una, infatti, troviamo il re Dagoberto spinto dai diavoli all'inferno; ma, in buon punto, a toglierlo dalle male branche, ecco sopravvenire s. Maurizio e s. Martino e portarne l'anima al cielo, in rimerito delle ricchezze donate alle loro chiese, quoniam idem rex, cum et alias longe lateque ecclesias ditasset, tum praecipue horum copiosissime locupletavit (104). Un'altra visione ci mostra Carlomagno, il gran re dei franchi, l'imperatore d'Occidente, il sostegno dei pontefici di Roma, il protettore del monachismo, tradotto in giudizio innanzi al trono di Dio. I demoni gettano nella bilancia il forte peso dei suoi peccati: ma s. Iacopo di Galizia e s. Dionigi gettano nell'altro piatto i santuarj ch'egli ha costruito, le abbazie ch'egli ha beneficato; e quello trabocca (105), e l'imperatore è salvo dalle fiamme infernali (106). Egual sorte toccherà poi per intercessione di s. Dionigi al re Filippo Augusto (107): ma l'anima di Carlo Martello, secondo una visione di s. Eucherio vescovo di Orleans, riferita in una lettera di parecchi vescovi franchi a Luigi il Germanico, è torturata nel profondo inferno, per aver egli usurpato i possessi della Chiesa (108). Animata dallo stesso spirito è pur la leggenda di Ugo marchese di Toscana, narrataci dal Villani e dal Malispini. Piacendosi egli assai nella caccia, giunge un giorno, dilungatosi dai suoi seguaci, a un luogo ove vede uomini neri e sformati, che con pesanti martelli tormentano anime su dure incudini, e apprende di esser serbato allo stesso martirio, se presto non ritorni a buona vita. Di che spaventato, fa vendere tutti i suoi possessi in Allemagna, e fonda sette badie nella marca di Toscana, tutte riccamente dotandole (109). Se queste insegnano l'utile sommo che anche ai maggiori peccatori viene dal beneficare la Chiesa, altre visioni dichiarano le pene serbate a coloro che ne usurparono i beni (110): e di tal fatta è quella primamente indicata da Francesco Villemain, che trovolla in una predica fatta da Ildebrando, ancor monaco, in una chiesa di Arezzo. Vi si racconta come un dieci anni innanzi, nelle parti di Germania, era morto un conte ricco, ma, al tempo stesso, dabbene: cosa che si direbbe prodigiosa in cotal razza d'uomini. Dopo qualche tempo, un santo monaco, essendo in visione trasportato al mondo di là, vide il detto conte sui gradini superiori di una scala di fuoco che scendeva giù nell'abisso. Questa era occupata tutta dagli ascendenti del conte, e via via che uno di loro moriva, veniva ad occuparne il sommo, respingendo l'altro un gradino più basso, e mandandolo a maggior tormento: era, come dice il Villemain, un noviziato progressivo delle pene infernali. Il sant'uomo chiese spiegazione di ciò, e specialmente del perchè il conte, ch'egli aveva conosciuto buono e divoto, fosse condannato all'inferno; ed una voce gli rispose: - Ciò proviene da un possesso della chiesa di Metz che uno dei vecchi di questa famiglia, del quale il conte è erede in decimo grado, ha tolto al beato Stefano: e poichè non fu mai restituito, tutti costoro sono accolti nel medesimo supplizio, come l'avarizia li raccolse tutti nel medesimo peccato (111). - Questa pena; che rammenta quella inflitta da Dante ai pontefici simoniaci, dei quali l'ultimo venuto respinge l'antecessore più basso nella buca infiammata (112), immaginate quale impressione dovesse in cotesta età (113) produrre, detta in chiesa, coll'energia e la convinzione del fiero monaco, sugli animi di coloro che avessero usurpato, o soltanto ereditato dai loro maggiori, beni appartenuti un giorno agli ecclesiastici! Ma l'abuso che per politici intenti e per fini mondani erasi fatto della visione, aprì la via, come suole accadere, ad altro abuso: e questa forma non fu quasi più altro se non tema di poesia e modo di satira. Già non credevasi più alle visioni se non fossero raccontate da uomini che indi a poco fossero venuti a morire, come se il gran passo all'eternità fosse riprova del vero, e l'anima allora presentisse i suoi futuri destini e la vita avvenire (114); nè tutti potevano addurre a testimone dei loro racconti quella pelle color di fuoco che il tedesco Evervaco riportò dai tormenti infernali (115). Intanto ai monaci solitarj ed agli inframettenti prelati succedono lieti e giocondi poeti laici. La famiglia dei Troveri, dei Giullari e dei Menestrelli, allegri e spensierati quanto severi e cupi erano stati quei loro antecessori nell'uso della visione, venne a sorgere quando appunto più erasi della visione abusato. Posti quasi sempre in lotta e in antagonismo coll'ordine sacerdotale, questi poeti vollero anch'essi provarsi ad un soggetto così spesso trattato, e divenuto ormai popolare e comune; e ad occhi aperti e con aperto intelletto, finsero anch'essi un inferno e un paradiso. Ma se il clero aveva confitto nell'abisso i re e i baroni che gli erano stati aperti nemici o non lo avevano favorito, e glorificato in cielo quelli che gli si erano mostrati ligi, i poeti tennero altro modo e fecero altra scelta, ed ebbero agio di mordere acremente l'avarizia, la simonia, la scostumatezza del clero. E così, l'arma che il sacerdozio aveva maneggiato a sua difesa, eragli volta contro ad offesa; e quei racconti dei quali fino allora il popolo aveva avuto terrore, davano occasione alle grasse risate dei borghesi, che si rinfrancavano della sofferta paura. Anche qui il campo è assai vasto, e debbo contentarmi di alcuni esempj, tratti da quelle letterature che i Trovatori e i Cantores francigenarum diffusero ben presto nelle corti e nelle piazze della nostra penisola. Taluna volta il soggetto dell'inferno e del paradiso e la forma della visione porgono modo al poeta di esporre, per mezzo di simboliche personificazioni, com'era vezzo di quell'età, un certo ordine di morali dottrine; e in tal caso si direbbe ch'ei voglia soltanto provare le forze della sua fantasia e la copia della scienza. A questa categoria di poemi didattici appartiene, fra gli altri, la Voye du Paradis di Baudouin de Condé (116). Egli comincia colla descrizione della primavera, solita ed obbligata introduzione di ogni poesia, lirica o narrativa di quel primo risvegliarsi del mondo e del pensiero moderno e a cui neanche Dante ha saputo rinunziare, ponendo il suo pellegrinaggio nella dolce stagione, in che l'amor divino mosse dapprima le sfere del cielo. Sogna allora il poeta di essersi trovato ad un bivio; per un sentiero tortuoso ma largo, si avviano a gran furia principi, baroni, prelati e borghesi; e l'altro, dritto ma aspro, è lasciato deserto (117). Senza curare le spine ed i bronchi che gli impediscono il passo, Baldovino si pone per questa via; e i versi coi quali ne descrive le difficoltà: En la fin entre en une sente, Si aspre ne cuic mes c'om sente Et avoec ce qu'iert .aspre et dure, Si qu'a mout grat meschief l'endure (118), rammentano assai da vicino quelli con che Dante descriverà la selva selvaggia ed aspra e forte che nel pensier rinnova la paura (119). A capo della via sta una croce, dinnanzi alla quale il poeta si prostra e devotamente prega Dio, che gli manda un venerabile vecchio. Questi gli fa parte di molti e nobili insegnamenti morali, finchè Baldovino, contrito e confesso, e passando dalle case di Disciplina, Astinenza e Silenzio, è portato dagli angeli in paradiso: e la gioia che prova, gli rompe il sonno. Ecco dunque il laicato e la poesia che cominciano a impadronirsi di temi, e quel che è più, di regioni già possedute dal solo sacerdozio. Ma il più delle volte, il poeta non si contenta di mere considerazioni filosofiche e religiose, sì vi unisce beffarde allusioni e vi mesce satirico sale, come nel favolello di Ruteboeuf, intitolato anch'esso la Voye du Paradis (120), ove troviamo assai felicemente personificati i vizj e le virtù, e descritte le loro consuetudini e residenze; e meglio ancora in altro poemetto (121), pur dallo stesso titolo, che rifrusta la consueta favola del sogno e della peregrinazione nei regni di enti allegorici, ma l'avviva con amari lamenti sulla decadenza degli ordini monastici, terminando col benigno discorso che Dio stesso fa al poeta, e colla promessa di chiamarlo a suo tempo in cielo. Più ardite sono le descrizioni del soggiorno degli eletti e di quello dei reprobi, nè il poeta prova sgomento o paura, anzi tratta quasi familiarmente soggetti siffatti (122). La Cour du Paradis (123) di anonimo trovero, descrive una festa che il Signore offre a tutti i beati nel giorno stesso in che tutti sono in terra festeggiati dagli uomini. Ma questa corte celeste nella fantasia del poeta diventa la corte plenaria di un signore feudale. Il re del cielo chiama dunque s. Simone e il suo inseparabile compagno s. Giuda, e loro commette di andare per tutte le celle e i dormitorj del paradiso, e invitare alla prossima festa. S. Simone e s. Giuda munitisi di una raganella, si mettono in giro, passando via via dalle stanze degli angeli, dei patriarchi, degli apostoli, dei martiri, dei confessori, dei pargoli innocenti, delle vergini e delle vedove. Quando la festa incomincia, tutti i santi drappelli vengono un dopo l'altro, cantando canzonette amorose, che dall'umano sono alla meglio trasportate a significare il divino affetto: e in cielo si fanno le danze stesse che allora più erano in voga nelle baronali residenze. Maria e la Maddalena cantano e danzano (124), e sulla intercessione della regina del cielo viene ordinato a s. Pietro (125) di conceder l'entrata anche alle anime soffrenti nel purgatorio. Scrivendo questo strano poemetto, l'autore era egli in buona fede, o voleva empiamente satireggiare le cose appartenenti alla religione? È egli o no un precursore di Rabelais, di Voltaire, di Parny? Gli autori della Histoire littéraire de la France (126) pensano che senza aver mire irreligiose, il poeta ingenuamente si dipingesse nella fantasia le gioie celesti sull'esempio degli spassi mondani. A noi basta notare quanto da questo argomento siasi allontanato il primitivo spirito, e come il paradiso, descritto nelle leggende monastiche quasi luogo di continua preghiera e di melanconica contemplazione, in questo ritornare del genere umano, dopo i terrori medievali, al riso, al canto, alla cavalleria, si modelli sullo stampo di una corte d'amore, allegrata dallo spettacolo della bellezza, dagli esempi di leggiadro costume, dai diletti della gaia scienza. E così l'inferma fantasia dell'uomo, si foggia a sua posta le cose invisibili: e immaginando il paradiso ora come un coro monastico (127), ora come una corte bandita, segue sempre, e quasi inconsapevole, preoccupazioni variabili e momentanee. Nel poemetto di Baldovino abbiamo visto i laici, i poeti, che acquistano il loro seggio nel paradiso: ma ben presto vorranno entrarvi anche genti di più basso stato, preludendo ai maggiori avanzamenti e alle definitive conquiste della plebe nell'ordine politico. Nel favolello du Vilain qui gagna Paradis en plaidant (128), costui si pone a disputare con s. Pietro che vuol negargli accesso (129), e gli dimostra che il paradiso è fatto anche per gli umili e pei poveri, quando sieno uomini da bene e leali, come non fu certo l'apostolo che tre volte rinnegò il maestro. In aiuto di s. Pietro vien s. Tommaso, irato contro il villano, il quale, di rimando, lo rimprovera della sua poca fede, quando ebbe bisogno, per credere, di toccare la piaga del costato. A questi succede s. Paolo, e anche a lui è ricordato che perseguitò i primi credenti, e fece lapidare s. Stefano. Il villano allora si prostra innanzi a Dio; e poichè non lo rinnegò mai, e fu largo ai poveri, e obbediente ai precetti di santa Chiesa, dimanda di non essere scacciato; e il Signore benevolo gliel concede (130). Dalle descrizioni del cielo, passiamo ai pellegrinaggi nell'inferno, e prima diciamo del Songe d'Enfer di Raoul d'Houdan (131). Il viaggio comincia colle solite personificazioni di enti astratti: il poeta alloggia successivamente presso Cupidigia nel paese di Slealtà, presso Invidia che ha per compagne e cugine Frode, Rapina e Avarizia, indi presso Ubriachezza che ha seco un figlio nato in Inghilterra, e presso Ladroneccio che ha molti amici in Parigi, specialmente fra i tavernieri, indicati per nome dall'autore. Finalmente giunge alle porte infernali, guardate da Disperazione e da Morte subitanea. In cotesto giorno appunto, Belzebù tien corte bandita ai suoi vassalli, e il poeta vi assiste, riconoscendo fra quelli molti chierici e abati e vescovi: dopo di che si imbandisce un gran pranzo, al quale anche il trovero è invitato. L'immaginazione bizzarra del poeta si sfrena qui con intera licenza, e ci dice che la tovaglia è fatta di pelle di pubblicani, e le salviette di cuojo di peccatrici incallite nel vizio. Vengono poi i cibi, e sono carni di usuraj ingrassati del ben degli altri, e ladri nudriti dell'altrui sangue: poi eretici in spiedo, lingue fritte di avvocati (132), berrovieri in pasticcio, monache nere in cibreo, e così via (133). Alla fine del pranzo, Belzebù fa portare il gran libro dei peccati, e ne concede la lettura al suo ospite, che corre subito alla rubrica dei menestrelli, e vi legge le colpe di tutti i suoi compagni di professione. Io ho tenuto a mente, dice il poeta, i nomi, i fatti e i detti, e posso ripeterveli per filo e per segno. - Ma Raoul a questo punto si sveglia; e il poemetto ha termine con siffatta maligna reticenza (134). Siamo così giunti colle nostre ricerche assai presso ai tempi di Dante, e abbiamo visto gran parte delle immagini accumulate da una lunga serie di generazioni circa il soggetto stesso della Divina Commedia. Questo argomento, che, come rivelazione dei segreti della vita futura, è il più alto termine a cui si affisi la fede del credente, e come oggetto della poetica facoltà è la regione nella quale più liberamente spazia la fantasia, dopo aver servito a ufficj spirituali, politici e satirici, era già divenuto anche passatempo del volgo. Chè se nelle Rappresentazioni, le quali facevansi nelle chiese, o innanzi ai loro portici, la visione riteneva tuttavia la sua prisca natura religiosa, e' si può dire però che, fuor del tempio, servisse già a fini di gradevole sollazzo, se nel 1303 il faceto pittore Buffalmacco invitava il popolo fiorentino a vedere quella diavoleria ch'egli, insieme con Gello dal Borgo S. Friano, a rinnovazione delle feste del buon tempo passato (135), con uomini contraffatti, e anime ignude, e grida, e strida e tempeste, ordinava su barche e navicelle in Arno presso al ponte alla Carraja, miseramente precipitato sotto il peso della gran gente accorsa (136). Argomento di leggenda nei devoti racconti: tema letterario ai poeti: spettacolo nei popolari ritrovi: canto giullaresco nelle piazze e nei trivi: dipinto in sulle mura delle chiese e dei cimiteri (137), la Divina Commedia era già, dunque, in embrione e in abbozzo, prima che la mano di Dante le desse forma immortale nel suo poema. È noto ad ognuno come avesse origine la Commedia dantesca. Poco dopo la morte di Beatrice, il poeta, disposto da natura alla astrazione dai sensi, la quale, nell'ardor dell'affetto o nello spasimo del dolore, quasi assumeva in lui forma di estatico rapimento (138), ebbe una mirabile visione, nella quale vide cose che gli fecero proporre di non dir più di quella benedetta in fino a tanto che non potesse più degnamente trattare di lei. Ma la sua mente non era ancora da tanto, che a parole potesse ritrarre tutto quello che contemplò in quell'istante di estasi. Chiudendo la Vita Nuova, ei prometteva perciò a sè stesso, e a lei che sapeva l'intimo del cuor suo, di prepararsi all'opera con tutte le forze, sicchè se piacere sarà di colui per cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, spero di dire di lei quello che mai non fu detto d'alcuna. Mai giuramento d'uomo fu meglio attenuto! Ma quello ch'ei vide, quasi come sognando (139), dovrà esser ritratto coll'indocile strumento dell'umana parola: ed ecco cominciare per Dante un lungo periodo di meditazione, di studio, di fatiche, di vigilie che lo faranno per più anni macro, dacchè non si tratta più di racchiudere nel breve quadro del sonetto o della canzone, la espressione dell'amore o del dolore, ma di innalzare a Beatrice un monumento imperituro, al quale concorreranno tutte le cognizioni dell'intelletto, - la fisica, la filosofia, la teologia -: tutti gli elementi della vita universale - la storia, la politica, la religione -: tutte le forme dell'arte - la lirica, l'Epopea, il Dramma -: tutti i generi della versificazione - l'inno, la satira, la tragedia, la commedia; e a perfezionarlo coopereranno l'architettura coll'ordine, la scultura col rilievo, col colore la pittura, col suono la poesia. Quando poi, finita la lunga preparazione e accumulata tutta la sparsa materia, Dante avrà da cercare la forma appropriata a descrivere, con sì svariata suppellettile, fondo a tutto l'universo, la forma della Visione, già così propria del suo intelletto, gli si offrirà dinnanzi spontaneamente, colla efficacia degli esempj anteriori. Dappoichè, come abbiamo visto, eransene giovato i contemplanti a confermare dogmi religiosi e morali dottrine; i politici, a stabilire nelle coscienze il predominio di opinioni ed interessi mondani; i poeti a mostrare tutti i capricci della loro fantasia, e dare sfogo alla naturale arguzia e alla vena satirica; e per tal modo era, di generazione in generazione, diventata forma capacissima di concetti, significati, intenti fra loro diversi. Nè basta: nel poema di Virgilio egli trovava una descrizione del Tartaro, come nel Sogno di Scipione del grand'oratore di Roma quella della dimora assegnata ai giusti (140): e il suo stesso maestro, Brunetto Latini, col proprio esempio (141) gli insegnava, quanto giovasse, nudrito del cibo della morale filosofia, contemplare dall'alto l'ajuola che ci fa tanto feroci. Dante ben vide tutto il partito ch'ei poteva trarre dall'uso della Visione; ma, oltre la eccellenza dell'ingegno, gli errori stessi dei poeti, che lo avevano preceduto, lo ammonivano a non rifare un poema di meri simboli, come il Roman de la Rose e il Tesoretto, o di mera scienza, come l'Acerba di quel Cecco d'Ascoli, che all'Alighieri scioccamente rimproverava l'uso delle favole (142). Dante, con quella stessa felice intuizione del genio, che dopo un primo esperimento, gli fece lasciare la lingua latina per il volgare, scelse al suo vasto poema una forma veramente, per uso e per notizia, universale. Ma tutte le diverse ispirazioni che sopra abbiamo accennato, si univano per intima armonia, senza confondersi, nella mente del poeta; e tutti i fini particolari de' suoi predecessori si raccoglievano e ordinavano nell'unità del concetto e del magistero poetico. Indi la parte equamente data nel poema alla contemplazione e alla politica, alla religione e alla satira, all'uman genere e all'individuo, all'eterno e al caduco. Che se i monaci visionarj avevano scritto sotto la dettatura della fede, spesso superstiziosa, ma profondamente sentita, nè anche Dante aveane difetto: ma la sua fede era più robusta insieme e più illuminata. E anch'egli dà nell'opera sua gran luogo alla storia contemporanea ed alla politica, e giudica vivi e morti: ma per sè stesso null'altro bene dimanda se non il ritorno al bell'ovile, col capo cinto dell'amata e meritata fronda; e, fattasi parte da sè stesso, suo precipuo intendimento è instaurare la pace universale e l'ottimo ordinamento della umana compagnia, colla separazione del poter sacerdotale dal civile. E se anch'egli è satirico, non però è mai scurrile e plebeo: nè la poesia, che ha appreso studiando sui modelli dell'antichità, trascina nel fango delle plateali improvvisazioni giullaresche. L'angusto concetto che del male avevano i monaci, pei quali è soltanto violazione del dogma o della pratica devota, egli lo amplia anche alla vita civile; onde Bocca degli Abati, traditore della patria, è confitto nella ghiaccia infernale: e Cassio e Bruto, uccisori di Cesare, sono maciullati da Lucifero, al pari di Giuda, che vendè Cristo. Nè meno gli si allarga nella mente e nell'animo il concetto della virtù e del premio: sicchè l'operosità nella vita civile gli par meritoria quanto la quieta perfezione della spirituale; e se già la pia credenza assicurava che ai preghi di s. Gregorio, Traiano era stato salvato, Dante, di suo, sottrae Saladino, il conquistatore del sepolcro, dalle fiamme infernali: e Catone, suicida per la libertà, pone all'ingresso del purgatorio, e a salvare Stazio e Rifeo gli basta che l'uno fosse studioso di Virgilio, e l'altro nell'Eneide sia menzionato coll'epiteto di buono. Ricordisi ancora come nel Paradiso gli spiriti eletti non si dispongano soltanto a forma, di croce, ma più oltre si collochino in guisa da figurare il sacrosanto segno dell'aquila che fè i romani al mondo reverendi: e come alle discettazioni religiose, secondo le più ortodosse dottrine, si alternino; in bocca di Giustiniano le lodi dell'impero, in bocca di san Pietro le invettive contro i pontefici. De' quali, con libero giudicio, riempie l'inferno, e ne trova fra gli eresiarchi, e fra' simoniaci; e nel cerchio degli avari quasi tutti sono chierci e papi e cardinali: ben diverso da quei pii monaci che per lo più serbavano ai sacerdoti il paradiso, l'inferno ai laici. Nè meno da quelli si scosta nell'immaginare il soggiorno dei beati: il quale, nelle descrizioni monastiche, seguendo le forme orientali dei profeti e dell'Apocalisse (143), e indulgendo alla rozzezza delle menti, è cosparso di oro e di pietre preziose, edificato di mirabili palagi, inaffiato di limpide acque, allietato da suoni di organi e canti di uccelli, fragrante di inusati odori (144), quasi perfezione suprema delle bellezze e dei diletti del senso (145). E anche a' tempi del poeta seguitavasi a dipingere per tal modo l'eterea regione; onde il semplice fraticello autore della Visione dei gaudi de' santi (146), entrando lassù è incontrato da mille baroni tutti a cavallo, e il paradiso è per lui una città tutta cristallo e gemme, con grandi torri che parea toccassero propriamente il cielo: come se il paradiso fosse altrove che in cielo. E fra Giacomino, il sacro giullare di Verona, sembra quasi prender l'idea del paradiso da quel palagio, con maraviglia descritto dagli storici (147), che gli Scaligeri edificarono nella sua città: e i santi vi sono rappresentati come cavalieri, che Maria, raccoglie sotto il suo gonfalone rimeritandoli con ghirlande di fiori, e doni di staffe, di freni, di destrieri (148). E se anche questi poveri monaci e giullari, dalla impotenza della loro fantasia e del loro linguaggio, e dalla paura dell'errore ereticale, sono costretti a dichiarare che tutto ciò va inteso in significato mistico e simbolico (149), è pur da dubitare che il popolo sapesse penetrare oltre la lettera, e non accogliesse invece coteste descrizioni nella lor propria significazione, e secondo il poetico colorito (150). Ma in Dante, invece, il paradiso è pura luce: Luce intellettual piena d'amore, Arrivati al termine di queste storiche investigazioni, Voi potreste dimandarmi se, oltre una relazione generale, le Visioni dell'età media abbiano più stretta attinenza colla Divina Commedia, come modello colla copia, anche se riuscita maggiore e migliore: e se ciò diminuirebbe in nulla il merito del poeta. Ardua cosa sarebbe l'affermare, come già abbiamo notato, che la tal o tal altra leggenda sia stata l'esempio tenuto innanzi da Dante, e quasi il germe onde poi si svolse il gran poema. Certo è che coteste scritture erano forma di concetti generalmente sparsi nelle plebi cristiane: tanto che si potrebbe anche sostenere che più che ad esse, Dante abbia direttamente attinto alla coscienza popolare, la quale, meditando sull'argomento, aveva finito collo stabilire le penitenze che a certi peccati si convenivano, in virtù di quella legge che l'Alighieri disse del contrappasso; cioè della corrispondenza fra la pena e il misfatto. L'identità del soggetto ha, dunque, sua ragione nelle opinioni del tempo: quella dei particolari può essere o fortuita, o derivata dalla natura stessa dell'argomento, ovvero anche dalla tradizione (151). Tuttavia, che Dante il quale alla ispirazione accoppiava la dottrina, e che d'ogni cosa, si mostra studioso e conoscitore, dovesse interamente ignorare queste scritture, così simili nella materia al suo poema, non oseremmo asserire (152); nè alcuno di buon senno potrebbe negare che esse non sieno quasi necessaria introduzione al poema. Anche il Creatore per trarne il mondo, ebbe bisogno del caos; e le leggende dei visionarj sono appunto la materia onde fu composto il poema. Se non che, prima di Dante, l'argomento era veramente res nullius: era cosa di tutti e di nessuno: ma egli, appropriandoselo, vi pose quel che i suoi antecessori non avean potuto nè saputo recarvi, e ch'ei solo possedeva. Alle puerili concezioni dei monaci, alle cupide imposture dei politici, alle invenzioni grottesche dei giullari, egli sostituisce la schietta e vigorosa creazione della poetica fantasia, portando l'unità, l'ordine, l'euritmia, il magistero dell'arte, dove era soltanto scomposta congerie di fatti paurosi, o goffa enumerazione di maraviglie. Molti, lo abbiamo veduto, si erano già provati a ridire le pene dell'inferno e le gioie del paradiso; nè ci voleva ormai molta immaginazione ad accumulare nella descrizione del primo, tormenti e spasimi, e fuoco e ghiaccio e pece e zolfo e serpi e mostri e dèmoni: e in quella dell'altro, delizie e gaudi, e luce ed effluvj e canti e suoni: ma niuno aveva pensato di prender quel tema già vecchio e cincischiato, per rappresentar con esso la vita umana in tutte le sue forme e vicende, guardandola dall'abisso del male e dal culmine della felicità: e niuno, neanche, avea considerato che la narrazione di tante miserie e di tante allegrezze, finiva collo stancare il lettore e lasciarlo più stordito che soddisfatto, e a ravvivar la materia occorreva intromettervi l'uomo: non l'uomo in generale o l'anima senza persona, ma l'uomo col suo nome, i suoi costumi, le sue vicissitudini nel mondo e nella storia. Dante, trattando con tali avvertenze il logoro argomento, vi imprime il proprio suggello indelebile: e dopo di lui il ciclo delle Visioni si chiude. Le antecedenti cadono nell'oblio, d'onde le trae fuori soltanto la critica moderna, che faticosamente investiga la prima origine dei capolavori dell'arte: ma, volere o non volere, nella fantasia umana i tre regni della pena, della purgazione, del premio rimangono architettati, e per sempre, come Dante li rappresenta, e come l'arte replicatamente li ha riprodotti dietro la sua scorta (153). Dopo di lui non vi è altro da dire: ond'è che gli ultimi visionarj inconsapevolmente diventeranno plagiari di Dante (154), e il giudice Armannino, parafrasando l'Eneide, alle immagini virgiliane, nella descrizione del Tartaro e dell'Eliso; mescerà le dantesche (155). La Divina Commedia diventerà egualmente libro del volgo e libro dei teologi; e se le donne di Ravenna veggendo passare il poeta, muto e in sè raccolto, paurose lo additeranno ai figliuoletti come colui ch'è tornato dal buio regno di Satana, del poema ben presto si farà lettura e commento nelle chiese: le pie confraternite lo porranno fra i libri devoti (156), e alla Commedia si darà il titolo, che più non le si è scompagnato, di Divina (157), come se Dante fosse il più sicuro rivelatore delle glorie del cielo, e da questo fosse disceso: ma per gli uomini di sano intelletto, egli è veramente colui che attinse le più sublimi altezze dell'arte rinnovellata. Nè queste nostre ricerche possono in nulla diminuire la gloria del poeta: perchè, anzi, partendo da così basso per giungere sì alto, la critica fa meglio vedere quanto l'opera meditata del genio sovrasti alle incondite creazioni della fantasia popolare. Giova, invece, vedere l'Alighieri simile agli uomini del suo secolo, ma maggiore di loro; pensare e sentire come i suoi contemporanei, ma più altamente ch'essi non potessero: chè i grandi genj, non sono, come taluno malamente se li raffigura, nè solitari in un deserto, nè sonnambuli fra' dormienti, ma animi ed intelletti nei quali potente si accoglie tutto il sentimento e il pensiero dell'età loro, e che li rendono ai loro contemporanei e ai venturi, segnati dell'interna stampa, e, di fuggevoli, fatti immortali. Che se Dante non inventò tutto quanto il suo soggetto, questa, ahimè! non è sua colpa nè suo demerito, ma infermità della umana immaginativa, men vasta e potente che non sogliasi credere. Purtroppo nelle opere dell'ingegno umano, l'invenzione è più nell'arte che nella materia: chè nulla, o ben poco, vi ha di nuovo sotto il sole; e il Savio da molti secoli già ne ha fatto lamento. E prima di Omero vi eran stati i rapsodi, e innanzi l'Ariosto i cantastorie, e il Boccaccio fu preceduto dai troveri, e Shakspeare tolse la più gran parte dei suoi drammi dalle novelle, come Dante la Commedia dalle Visioni, e poi Goëthe il Faust dalla popolare leggenda. Già la nazione possedeva, rozza e incolta, la materia ch'essi lavoreranno colla consapevolezza e la virtù dell'artista: sicchè quel che ad altri è scoria e pattume, diventa oro nelle loro mani. E a voi, fiorentini, il fiorentino poeta potrebbe esser paragonato ad uno di quei vostri antichi maestri dell'arte di Calimala, che ricevevano greggi e di piccol valore i panni da ogni parte del mondo, e colla sottile industria li trasformavano talmente, che il mondo da loro li ripigliava più belli, più durevoli e più pregiati. ________________ (1) Vedi, oltre la Lettera (1808) di Eustazio Dicearco (P. ab. di Costanzo), quelle di G. Gherardo de' Rossi e del Cancellieri (1815), l'operetta di quest'ultimo sulla Originalità di Dante (1814) e la Conclusione del De Romanis, nella ediz. romana della Div. Comm. (1815). Tutte queste scritture sono anche riprodotte, salvo l'opera dei Cancellieri, nel Dante della Minerva e in quello del Ciardetti (1830). Cons. anche Canali, Lettera al prof. Gatteschi nel Giorn. Letterat. di Pisa (t. IX, p. 231) e Pozzetti, Ragionamento dell'Originalità di Dante (in Att. Accad. Ital., Livorno, Masi, 1810). Della controversia suscitatasi a proposito della Visione di Alberico, toccò il Foscolo nella Edimb. Review (t. XXX), e poi nel Discorso sul Testo (Op., ediz. Le Monnìer, III, 393). (2) Vision de Tondalus, récit mystique du XII s. mis en français par Oct. Delepierre, Mons. 1837. Edizione di 100 esemplari. Non mi è stato possibile procurarmi un'altra pubblicazione del Delepierre, il Livre des Visions, stampato a Londra (s. a.) in 25 sole copie. (3) St. Potrich's Purgatory, an Essay of the Legends of Purgatory, Hell and Paradise current during the Middle Ages. London, Russel Smith, 1844. Il Wright è autore di altra pubblicazione, a me ignota, intitolata Saint Brandan, a medieval legend, London, 1844. (4) La Divine Comèdie avant Dante, in Revue des deux Mondes del 1842, riprodotto in Oeuvres de D. A. Charpentier, 1858, che è l'edizione da me citata. (5) Des sources poetiques de la D. C., in Oeuvres complètes, Paris, Lecoffre, 1859, V. 351. L'Ozanam aveva già trattato in parte quest'argomento nella sua tesi dottorale: De frequenti apud veteres poetas heroum ad inferos descensu, 1939, e nella prima edizione del Dante et la philosophie catholique au XIII siècle. (6) Antiche leggende e tradizioni che illustrano la D. C. precedute da alcune osservazioni. Pisa, Nistri, 1865. Estr. dagli Annali delle Università Toscane, vol. VIII. (7) Vedi nell' Ozanam, op. cit., p. 456, un episodio dell'Atarva-veda. (8) Vedi, ad es., il Canto del Sole nell'Edda, ricordato dal Wright, p. 177, e dall' Ozanam, p. 378, 457. (9) Labitte, op. cit., p. 95. (10) Si potuit manis accersere conjugis Orpheus Threicia fretus cithara fidibusque canoris, Si fratrem Pollux alterna morte redemit, Itque reditque viam totiens: quid Thesea, magnum Quid memorem Aiciden? Aeneid. VI, 119-23. (11) Labitte, op. cit., p. 96. (12) Ozanam, op cit., p. 445. (13) Senec. Troad. II. (14) Juvenal, II, 152. -- Ved. Labitte, op. cit., p. 96. (15) Confr. Æneid. VI, 724 e segg. (16) Vedi anche il Fedone, ove, secondo nota il Labitte, p. 91, trovasi già la triplice divisione che il cristianesimo ha fatta dell'altro mondo; il lago Acherusíade, dove le pene sono temporanee, corrisponde al Purgatorio: il Tartaro, donde i reprobi non usciranno mai, all'Inferno: mentre poi il Paradiso rassomiglia all'alta e serena dimora dove vivranno eternamente e senza corpo, le anime purificate dal culto della filosofia. (17) Traduzione dell'Adriani, Firenze, Piatti, 1820, II, 457-e segg. (18) X, 21-22. Confr, Psalm, LXXXVIII, 6. (19) XII, 2. (20) Più espliciti sono, in questo proposito, i libri apocrifi degli ultimi tempi del Giudaismo, primi del Cristianesimo: vedi, ad esempio, una descrizione del paradiso e dell'inferno nel Libro d'Enoch, c. -XXII (in Migne, Diction. des Apocryphes, 1856, I, 442). Ma la più parte delle leggende ebraiche sull'inferno e sul paradiso sono posteriori all'età cristiana, e si direbbe avessero sentito l'efficacia del nuovo dogma, adattandolo alle tradizioni mosaiche e rabbiniche. Vedi, ad esempio, la Storia di Rabbi Giosuè figlio di Levi (IX o X sec.) trad. dal prof. S. De-Benedetti (nell'Annuario Societ. Ital. Stud. Orient. I. 93). Essa è tratta dall'opera di Jellinek, Betha-Midrasch, Samml. klein. Midraschim, Leipzig, 1853-57, II, 48-51. Un'altra leggenda, Ordine del paradiso deliciano tratta dalla stessa opera, II, 53, è stata pur tradotta e aggiunta alla succitata dal mio collega ed amico, che fra breve pubblicherà altre due consimili leggende della raccolta del Jellinek, cioè il Trattato della Geenna, I, 147, e un altro Ordine del paradiso deliciano, 111, 131, 194. - Il Paradiso descritto nei Mechaberot di Emanuele Romano è posteriore alla D. C. Vedilo tradotto da M. Soave, Venezia, 1863, e parafrasato poeticamente da S. Sipilli, Ancona, 1874. Sulle relazioni fra Dante ed Emanuele è da consultare un artic. di T. Paur nel Jahrbuch f. Dant. gesellsch., III, 423. (21) Æned. VI, 638. (22) Per es. Tizio, Sisifo ecc. Ma già nell'Eneide cominciano ad apparire le pene speciali (VI, 557 e segg) e le classificazioni dei peccatori (VI, 608 e segg.) e dei giusti (VI, 660 e segg.). (23) Vedi il discorso di Achille nell'Odissea, XI. (24) Vedi, ad esempio, Orione nell'Odissea, XI . E nell'Eneide, VI, 642 e segg. (25) Marc. X, 25, Luc. XVI, 20. Il concetto fondamentale di questa parabola: recordare quia recepisti bona in vita tua, et Lazarus similiter mala: nunc autem hic consolatur, tu vero cruciaris, (v. 25), trovasi anche in una parabola talmudica, la quale narra' phe Rabbi Josef, essendo stato rapito in estasi durante una malattia, al padre che gli dimandava che cosa avesse veduto, rispose: un mondo alla rovescia, ove i superiori stanno sotto, e gli inferiori sopra: onde il padre gli replicò: figlio mio, tu hai veduto un mondo puro. (Talm. babilon. Pesahim f. 50, a. Rabà Patrà, 106). (26) Vangelo di Nicodemo, trad. del buon secolo. Bologna, Romagnoli, 1862, p. 42. Secondo una posteriore credenza popolare, il Salvatore ogni anno ridiscende al limbo a liberarne le anime (Ozanam, p. 388): vedi la Visione di Ansellus Scholasticus in Du Méril, Poes. popul. latin. anter. au XII siècl. Paris. Brockhaus, 1843, p. 200. (27) La critica moderna nega a s. Dionigi la paternità di quest'opera, della quale un compendio trovasi in un testo siriaco del Testamento d'Adamo (Dict. des Apocryph. 1, 293), e apocrifa si considera anche l'opera De situ paradisi attribuita all'altro Dionigi, l'Alessandrino. (28) Una enumerazione e nomenclatura dei principali angeli decaduti trovasi nel Libro d'Enoch (Dict. des Apocr. I, 469). Uno di essi è Tenemue, il quale «scoprì agli uomini i segreti della falsa sapienza, e insegnò loro la scrittura e l'uso dell'inchiostro e della carta»: azione che il pensar dei moderni, salvo certuni che tutti sanno, non giudicherà criminosa nè diabolica. (29) Serm. LXVI. (30) Il monaco Vettino prima di aver l'estasi, durante la quale gli sembrò d'esser condotto a vedere l'inferno, si era fatto dare da leggere, secondo narra egli stesso, i Dialoghi di S. Gregorio, i quali, pieni com'erano di cotali visioni, dovevano necessariamente volgere in codesta parte la sua immaginazione. (31) Di tali preghiere per ottenere la grazia di qualche mistica visione, sono frequenti gli esempi nelle Vite dei SS. PP.: vedi anche il Dialogus Miraculorum di Cesario d'Heisterbach, edid. Strange, Colonia, 1861, distinct. VIII, c. 5, 8. (32) Di queste primitive visioni monastiche, vedi esempio nella Vita di S. Antonio (Vite SS. PP. I, 18, II, 9), nella narrazione di un reo frate giunto presso a morte (Id. III, 35), di un santo padre che vide quattro ordini onorabili al cospetto di Dio (Id. III, 111), e di una fanciulla che vide il padre in paradiso e la madre all'inferno (Id. IV, 44: Cfr. con il Conto XI, dei Dodici conti morali di anonimo senese, Bologna, Romagnoli, 1862, e col Fabliau de la bou yeoise qui fu dampnée etc. in Hist. Litt. de la France XXIII, 119). Aggiungi le Visioni di tre uomini resuscitati nella Leggenda di s. Girolamo: quella della badessa. nella Vita di s. Eufrasia: di Elia monaco (Vita di s. Girolamo), di S. Mariano e S. Giacomo (III sec.) che alla stessa ora ebbero una stessa visione del tribunale di Dio (Goerres, Mystiq. divín., Paris,1863, I, c. IV), e di s. Andrea Sali condotto da un angelo, il quale, come la sibilla virgiliana, praeferebat ramum aureum, nel regno delle tenebre, e poi di cielo in cielo al trono di Cristo (Bolland., XXVIII Mai, Coroll., V). (33) Vite SS. PP., IV, 79. (34) Il testo: Et illic crcmabantur donec ad modum cremij in sartagine concremati omnino liquescerent. La versione italiana secondo il testo Corazzini reca: grattugia, e la veronese del Giuliari: grattacaxola. (35) ...un cogo, ço è Baçabu... Ke lo meto a rostir, com un bel porco, al fogo En un gran spe de fer per farlo tosto cosro. E po prendo aqua e sal e caluçen e vin E fel e forte aseo, tosego e venin E si ne faso un solso. Vedi il poemetto de Babilonia civitate infernali, in Mussafia, Monum, antichi di dial. ital., Vienna, 1864, p. 38. (36) Enperço k'el Re ke se' su lo tron santo Si ge monstra a solfar et a servir quel canto. De Jerusalem celesti, in Mussafia,op, cit, p. 30. (37) De le quale (onde) çascauna si à tanta vertu K'elle fa tornar l'omo veclo in çoventu. Id., id., p. 28. (35) ...un cogo, ço è Baçabu... Ke lo meto a rostir, com un bel porco, al fogo En un gran spe de fer per farlo tosto cosro. E po prendo aqua e sal e caluçen e vin E fel e forte aseo, tosego e venin E si ne faso un solso. Vedi il poemetto de Babilonia civitate infernali, in Mussafia, Monum, antichi di dial. ital., Vienna, 1864, p. 38. (36) Enperço k'el Re ke se' su lo tron santo Si ge monstra a solfar et a servir quel canto. De Jerusalem celesti, in Mussafia,op, cit, p. 30. (38) Anche l'Inferno dantesco ha certamente, qua e là, pitture oscene o triviali, ma nella varia unità del gran poema celeste descrizioni non stuonano; anzi, fatte con somma arte e consapevolezza, diventano forme del comico, come nella bolgia degli adulatori, nel diverbio di maestro Adamo ecc. E Dante così sapeva a qual fine erano destinate, che chiude il c XVIII col verso: E quinci sien le nostre viste sazie, e il XXX coll'altro: Chè voler ciò udire è bassa voglia. (39) Il Bottari (Lett. ad un Accad. Crusc.) ci fa sapere come la leggenda del Purgatorio di s. Patrizio fosse inserita nel Breviario dei Giunti di Venezia del 1522; ma tolta nelle successive impressioni, credo per ordine di Roma... avendovi sempre repugnato la congregazione dei Riti, e credutola una fola di Romanzi. Per questo il gran Baronio non ne ha fatto parola nè nel Martirologio nè negli Annali, e Urbano VIII non volle permettere se non la commemorazione di questo santo. (40) Dyon. Areop., Ep. VIII. (41) August. De orig. anim. I, l. Vedi anche i Bolland., VII Mart., I, 635-5; Goerres. op. cit., I. 4. (42) L. IV, cap. 38. Cito la traduzione del Cavalca. - Confr. Vincent. Bellovacens., :Spec. hist., XXII, 91. Vedine anche una traduzione francese, tratta da un'opera di Roberto Testagrossa, nel Jubinal, Nouv. recueil de Fabliaux etc., Paris; Challamel, 1842. II, 304. (43) L. IV, c. 29. (44) L. IV, c. 36. (45) L. IV, c. 37. (46) L. IV, c. 26. (47) L. IV, c. 44. (48) L. IV, c. 55. (49) Bolland., XXI August. Vedi Labitte, p. 100. (50) Greg. di Tours, Hist., VII, 1, trad. Guizot, Didier, 1862, I, 414. (51) Legenda aurea, e Storia dei SS. Barlaam e Josafat. testo del Bottari, Roma, 1816, p. 110. (52) Vedi la dissertazione del Liebrecut, nelle Sacre Rappresentazioni, Firenze, Le Monnier, 1872, II, 146. (53) Alexandri Magni Iter ad Paradisum, ex codd. mss. latinis. primuse did. J. Zacher, Regimonti, Theile,1858. Vedi anche Favre, Hist. fabul. d'Alex. ne' Melanges etc., II, 86, Géneve, 1856, e la prefazione del prof. Grion ai Nobili fatti di Alessandro Magno, Bologna, Romagnoli, 1872, p. XCVI e seg. Una traduzione di questa leggenda di Alessandro dal testo talmudico è in Levi, Parab. e leggende talmudiche, Firenze, Le Monnier, 1861, p. 218. (54) Mancando tuttavia una buona edizione del romanzo in prosa, rimanderemo al rifacimento poetico di Tullia d'Aragona, c. XXVII e segg. (55) Vite SS. PP., IV, 64 e segg. Diversa da questa è la Leggenda del viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre pubbl. dallo Zambrini nella Miscellanea di Opuscoli inediti o rari dei secoli XIV e XV, Torino, Unione tip. edit., 1861, I, 163, la quale ai tre monaci appropria la maggior parte delle avventure meravigliose dell'Iter di Alessandro. (56) Bolland,. X Jan., II, 44; Mabillon, Ac. Sanct. ord. S. Bened. saec. II, p. 307; Vinc. Bellovac. Specul. Hist., XXIII, 81-3; Wright and Halliwell, Reliq. antiq., I, 276. In Italia la leggenda di Furseo si trova nelle Vite dei SS. PP., IV, 78 e seg. Un testo a parte è nel cod. magliab., II, 2, 89, p. 115. (57) Nell'originale "del suoi colori" che sembra evidente refuso tipografico [nota per l'edizione elettronica Manuzio] (58) Pei manoscritti latini di questa leggenda vedi il Catal. des Mss. des Dèpartem., III, 171; Wright, op. cit. p. 8; Du Meril. op. cit., p. 298; Bartsch, Grundr. z. gesch. d. prov. literat., p. 57. Per le versioni francesi, il De la Rue, Essai sur les Bardes etc., III, 139; il Michel, Rapport, ec. 1837, p. 93: noi ci gioviamo del testo di Adamo il trovero, pubbl. dall'Ozanam, Dante et la phil. cathol., p. 413. Per le inglesi, il Warthon, Hist. of engl. poetr. I, 19, e Wright, p. 8; per le provenzali, il Fauriel, Hist. litterat. provenç. I, 260, e il Bartsch, Deukm. d. prov. litterat., 310. Oltre quella pubblicata dal Villari se ne hanno altre versioni italiane inedite: p. es. nella Palatina, II, IV, 56: nella Riccardiana (Cital. Lami, p. 314 ecc.). - Un frammento di leggenda copta nel quale si narra di una visita di s. Paolo all'Inferno, ove ei trova Giuda, fu pubbl. dal Dulaurier: ved. Dict. des Legendes, Migne, 1855, col. 720 e 1040. (59) II, 12, 2-4. - Un libro apocrifo perduto conteneva la narrazione di questo rapimento di s. Paolo. Vedi August. Haeres., XVIII; Tertull., De praescript. XLII, Epiphan., Haeres., XXXVIII; Dictionn. des apocriph., II, 635. (60) Così il Labitte, p. 133. Ma nel verso Quarante et quatre milliers et cent parmi trovare una reminiscenza del centum quadraginta quator millia dell'Apocalis., XIV, 1. (61) Trovasi, ad es., nella visione del ladro convertito (Fioretti di S. Francesco, c. XXVI), la quale si direbbe un plagio malamente fatto a memoria, della visione di Tondalo; nella Visio Esdrae pubblicata dal Mussafia in appendice agli Studj su Tondalo, in quella del calavrese ab. Giovachino di spirito profetico dotato, riferita dall'Ozanam, p. 418, etc. (62) Questo ponte nei libri zendici (Vendidat, XIII, 3, 9, XVIII, 6, XIX, 29, Yacna, XLV, 10, 11, L, 13, LXX, 71, nonché nel Bundehesh, XXII, 15) si chiama cinvat, e le anime buone, cui sembra della larghezza di una parasanga, lo passano felicemente, guidate dall'angiolo Çraosha, mentre le malvagie, tratte dal demone Vizareshô, lo trovano stretto, e precipitano nell'abisso. Nelle tradizioni musulmane questo ponte, più acuto di una spada e più sottile di un capello, è detto siràt (ved. Sprenger, Das Leben d. Mohammed, II, 62-5). Qualche cosa di simile si può trovare, risalendo alle prime tradizioni ariane, nel setu (ponte) ricordato dal Rigveda, IX, 41, 2 e dal Sàmaveda II, 3, 1, 3, 2. (63) È notevole che di questo ponte, comunissimo ai leggendarj dell'età media, non vi sia menzione nella Divina Commedia: e malamente l'Ozanam, p. 372, vi raffronta il sasso rotto che dalla gran cerchia si move, e varca tutti i vallon feri. Si direbbe che Dante abbia voluto qui separarsi da tutti i suoi predecessori nella descrizione delle regioni infernali. (64) Ediz. Villari, p. 78. Manca nel testo francese. Così più sotto nel testo italiano, gli immersi fino al ginocchio sono gli avari, che nel poemetto francese sono invece sospesi agli alberi. Fra i due testi, le variazioni e le trasposizioni sono continue, fornendoci sicura prova che il popolo si era reso padrone di questi racconti, e li mutava forse per ignoranza, fors'anco per cangiata opinione sulla convenienza delle pene coi peccati. (65) Et vit deus angres en l'eir voler (Ozanam, 420). Più sotto il testo fr. è mancante, ma si rimedia alla lacuna colla lezione italiana, p. 80. (66) Lo die della domenica, così comincia il testo italiano, è grande da temere e da guardare di tutte le rie opere: p. 77. (67) Secondo Albericus Triumfontium, il viaggio risalirebbe al 561, e della leggenda si avrebbero secondo il Greith (Spicileg. vatic., p. 145) testi del IX sec. I più tuttavia, l'assegnano all'XI. (68) Il testo latino trovasi nella pubblicazione intitolata: Légende latine de S. Brandaines avec une traduction inedite en prose et en poesie romanes... publ. par Ach. Jubinal, Paris, Techener, 1836: nonchè nella pîu recente: Sanct Brandan; eine lateinische u. drei deutsche texte, herausgg. v. C. Schröder, Erlangen, Besold, 1872. Altri mss. contenenti il testo latino sono indicati nel Catal. des mss. des Départem., I, 191, II, 777. Per le varie versioni, vedi Dohuet, Dict. des Légendes, Paris, Migne, col. 277 e la Prefazione dello Schröder. Un testo italiano, non però nella sua integrità, a causa delle sue molte lungaggini, fu pubbl. dal Villari, op. cit., p. 82-109. (69) P. 373. I Bollandisti lo designano col nome di deliramenta apocrypha. (70) Op. cit., p. XXXI. (71) Cfr. l'ira di Polifemo nel IX dell'Odissea con quella di un diavolo dell'isola infernale: Ecce-predictus barbarus occurrit ad litus illis a regione portans forcipem in manibus cum massa ignea de scorio immense magnitudinis ac fervoris, qui statim super famulos Christi jactavit praedictam massam, set illis non nocuit, transivit enim illo: quasi spacium unius stadii, ultra, nam ubi cecidit in mare, cepit fervere mare quasi ruina montis ignei fuisset ibi, et ascendebat fumus de mari sicut de clibano ignis: ediz. Schroder, p. 28. (72) Il gran pesce Jasconius preso dai monaci per un'isola sulla quale discendono, si trova, come nota lo Schröder (p. 39), nei romanzi di Alessandro e nelle Mille e una notte. (73) Santarem, Atlas des monum. geograph. dum. age. Paris, 1842. (74) I racconti della leggenda sono, come ha osservato il Reinaud, Geogr. d'Abulfed. II, 263, passati in parte nella Geografia di Edrisi: vedi Denis, Le monde enchantè, Paris, 1843, p. 265. (75) Vedi La leggenda di Vergogna e di Giuda, testi del buon secolo, Bologna, Romagnoli, 1869. (76) Villari, op. cit., p. 97. Quest'episodio di Giuda trovasi, passatovi dalla leggenda di S. Brandano, anche nella Image du Monde di Gautier de Metz (Du Meril, Poes. popul. latin. du moy. age, Paris, Franck, 1847, p. 336), e nel poema di Baudouin de Sebourg (V. Hist. litt. de la Fr. XXV, 595). (77) Di questa leggenda vedi il testo latino pubbl. dallo Schade: Visio Tnugdali, Halis saxonum, 1869, e dal Villari, p. 3-22. Le varie redazioni e le versioni in tedesco, olandese, inglese, svedese, irlandese, spagnuolo, provenzale, francese e italiano sono indicate nel pregevole opuscolo del Mussafia; appunti sulla Visione di Tundolo, Vienna, Gerold, 1871. Le versioni italiane sono, quella ripubblic. dal Villari, op. cit., p. 23-50, quella in dialetto veronese del Giuliari,. Il libro di Theodolo, Bologna, Romagnoli, 1870, e l'altra del Corazzini, La Visione di Tugdalo, Bologna, Romagnoli, 1872, ove nella Prefazione sono indicati parecchi altri testi volgari. (78) Vi è anche una fabrica fabrorum diretta da Vulcanus. § 11, ediz. Schade; § 8, ediz. Villari. (79) Altre rassomiglianze con Dante potrebbersi notare in questa leggenda. Così in Tundalo l'angelo a longe venientem quasi stellam lucidissimam, ricorda quello del Purgat. XII che venia bianco vestito e nella faccia quale Par tremolando mattutina stella. La disputa che fanno i diavoli cogli angeli sul corpo di Tundalo, ricorda quella per Guido e per Buonconte da Montefeltro: se non che, tutte più probabilmente risalgono a tradizioni anteriori, di cui trovansi traccie anche nelle Vite dei SS. PP., e che poi diventeranno il popolarissimo Contrasto dell'angelo e del demonio. In Tundalo, il mostruoso Acheronte divora due peccatori (i giganti Fergusius e Conallus) sicchè la sua bocca è in similitudinem triarum portarum: il che rammenta il Lucifero dantesco che maciulla Giuda, Bruto e Cassio, e le sue tre bocche. Così anche l'antipurgatorio di Dante potrebbe compararsi alle regioni della leggenda irlandese, ove stanno senza troppo gravi tormenti coloro che furono mali sed non valde, e i boni non valde, qui de inferni cruciatibus erepti, nondum merentur sanctorum consorcio conjungi. (80) Jacet... super cratem ferream, suppositis ardentibus prunis ab innumerabili multitudine demonum follibus sufflatis (sulflantium?).... ligatus.... cathenis ferreis atque ereis ignitis et valde grossis. Cum autem sic versatur in carbonibus, et undique conburitur, nimia ira exarsus vertit se de latere uno in aliud latus, et omnes manus suas in illam animarum multitudinem extendit, eisque repletis omnibus, constringit, et ut sitiens racemos exprimit. (Altro testo: sicut rusticus sitiens racemos comprimit ut inde vinum elitiat), ita ut nulla sit anima que vel non divisa, ut ita dixerim, vel capite, pedibus manibusque privata, evadere possit illesa... Tunc etiam quasi suspirans, sufflat et spargit omnes animas in diversas Gehenne partes, et statim eructat puteus fetidam flammam, et cum retrahit anhelitum suum dira bestia revocat ad se omnes animas, quas ante sparserat, et cum fumo ac sculphure in os ejus cadentes, devorat. § 14, ediz. Schade: § 10, ediz. Villari. (81) Questo pallegio diabolico delle anime trovasi anche in una visione dell'ab. Morimondo, in Cesario, dist. I, c. 22. (82) La vacca trovasi anche in una visione di Godescalco usuraio, riferita da Cesario, II, 7, ove il burgravio Elia di Rininge è condannato ad esser travolto e straziato da una vacca furente, che già fu da lui carpita a una povera vedova. Anche altrove gli oggetti materiali del peccato commesso diventano strumento di punizione. Nella citata visione del ladrone convertito (Fioretti di Franc. XXVI) la comare del visionario sta in inferno entro una misura di ferro tutta infuocata, perchè a tempo di carestia falsò con quella il prezzo delle biade. Nella visione di S. Vettino (Ozanam, p. 393) i potenti del mondo sono obbligati a mangiare ed ingoiare tutte le cose che altrui usurparono vivendo. In una leggenda di Cesario (XI, 34) l'anima di un monaco morente è impedita nel suo volo al cielo da un mezzo danaro, ch'egli dimenticò di pagare per mercede a un navichiere, e che a poco a poco cresce tanto ut mundo major videtur. In altra (XII, 42) i demoni sbattono in viso a un chierico, cui fu lasciata in legato, purchè suffragasse l'anima del defunto, una schiavina, e gli abbruciano così la pelle e i capelli. (83) Le maggiori notizie su questa leggenda si trovano nel citato libro del Wright, nonchè nel Diction. des Legend. col. 951, e nella Appendice di Philomneste Junior (Gust. Brunet?) al libro Le voyagc du puys sainct Patrice, Genève, Gay, 1867. Testi latini ne sono indicati nel Catal. des Ms. des Dèpart. I, 189, 473, II, 777. Il testo attribuito, a Enrico di Sutrey (Henricus Salteriensis) monaco benedettino vissuto circa il 1150 (v. Fabricius, Biblioth., ediz. Galletti, II, 211) è stampato nel Massinger, Floril. insul. sanctor. Hibern. Parigi, 1626. La leggenda è anche riferita nello Specul. di Vinc. di Beauvais e in Matt. Paris: (a. 1153). Pel francese, oltre il testo pubbl. del Gay, vedine uno molto più ampliato e moderno nel Dict. des Legend., col. 957. Testi in versi trovansi in Tarbè, Le Purgatoire de S. Patrice, Reims, 1862, e in Marie de France, ediz. Roquefort, II, 403: vedi anche De la Rue, Essai, III, 245, e P. Paris, Mss. franç., VI, 398. Pel provenzale, vedi Du Mège, Voyage au Purgatoire de s. P. par Perilhos et lo libre de Tindal, Toulouse, 1832. In italiano, trovasene un testo assai breve nelle Vite dei SS. PP., IV, 88. Più ampio e il testo pubbl. dal Villari, op. cit., 51-76. Una lezione veneziana ne ha stampata il prof. Grion nel Propugnatore, III, 116. Vedi anche il Teatro delle Glorie e Purgatorio di s. P. di C. Faleoni, Bologna, 1657, e la Vita del prodigioso s. P. con la relazione del rinomato suo Purgatorio scritta da Mario Parisiense, e la veridica storia di Luigi Ennio, Venezia, 1757. È noto il dramma spagnuolo El Purgatorio de s. Patricio di Calderon. (84) Secondo i vari testi si chiama Ovven, Olaus, Ennius, Esleves, Lodovicue, Nicolaio, Alvise, etc. (85) Le Grand d'Aussy, Fabliaux, ed. Renonard, 1829, V. 93; Labitte, op. cit., p. 127; Wright, op. cit., p. 68. (86) Ediz. Villari, p. 64. Anche nella Visione di Alberico: Ante os ipsius vermis animarum stabat multitudo, quas omnes quasi muscas simul absorbebat, ita ut cum flatum traheret, omnes simul deglutiret, cum flatum emitteret, omnes in favillarum modum rejiceret exustas: § 9. E nella Visio Esdrae: Ante os ejus stabant multi peccatores et cum duxit flatum ingrediebant in os ejus quasi muscae, cum autem respirabit, exibant omnes alio colore. (87) Così, secondo osserva l'Ozanam, p. 404, rassomiglianti fra loro il Purgatorio di s. Patrizio e la Visione di Dritelmo monaco inglese (raccontata da Beda, Hist. Eccles. V, 13), che pure ha qualche cosa di comune con quella di Tundalo (Wright, p. 18); e, a me pare che non differiscano molto fra loro, la Visione di Furseo e quella del monaco di Milbourg.riferita da S. Bonifazio, Epist. XXI. Quella di Roteario è, secondo il Wright (p. 106), un plagio della visione di Vettino. (88) Posteriori, e veramente storiche discese nella caverna di S. Patrizio, sono menzionate dal Wright, p. 135. (89) Vedila nel vol. V. della D. C. nelle edizioni del De Romanis, della Minerva e del Ciardetti, con a piè di pag., paralleli continui di passi danteschi. Alberico visse sul principio del sec. XII, e fu rapito in estasi essendo fanciullo di dieci anni. La visione da lui narrata corse per le bocche dei confratelli, mescolandosi col falso, finchè l'abate Girardo ordinò al monaco Guido di ridurla in scritto; ma avendo egli tralasciato molte cose, l'abate Signoretto (1127) commise a Pietro Diacono di unirsi con Alberico, e correggere e compiere la narrazione. Ciò si espone nel proemio che è fatto in nome di Alberico, e ove si danno i titoli di alcuni capitoli erroneamente interpolati nella leggenda. (90) Seguendo e ampliando una opinione di S. Agostino, Confess., I, 7, Alberico danna agli igneis prunis incendiosisque vaporibus i fanciulli, quia nec unius diei infans sine peccato est, et saepe tales, aut matrem contristando vel in faciem caedendo, vel aliquibus humane fragilitatis casibus, peccato omnino carere non possunt. (91) Cfr. Ezech. II, 8; III, 3; Jerem. XV, 16; Apocal. X, 9. (92) Su questa denominazione, ved. Maury, Essai sur lee Legendes,Paris, Ladrange, 1843, p. 152. (93) Vedi su ciò le Lettere del Bottari e del P. Costanzo. Ma non tutte le rassomiglianze che voglionsi stabilire fra Alberico e Dante ci sembrano giuste: per es., altra cosa è il letto che Alberico vede in paradiso ove giace uno cujus nomen ab Apostolo audivi, sed prohibuit dicere, ed altra è il seggio vuoto preparato per l'anima augusta di Arrigo VII. Sarebbe piuttosto da paragonare quest'ultimo con quel sedile mirabiliter ornatum in quo nemo sedebat della leggenda di Tundalo, destinato a un frate irlandese; qui non migravit a corpore, sed dum migravit, in tali sede sedebit. Anche nel Liber visionum beatae Aczelinae citato in Cesario, VI, 10, sii trova in coelesti mansione sedem vacuam mirae pulchritudinis et gloriae, destinata a un frate Engilberto. E qui cade in acconcio notare come del caso contrario, cioè di un'anima anticipatamente dannata alle pene infernali, che sembra audacissima invenzione di Dante a proposito di Branca Doria, già eravi esempio in Cesario stesso (XII, 3), per Ermanno langravio, l'anima del quale in profundo inferno dimersa erat, e anno integro antequam sepeliretur mortuus erat, cuius corpus malignus spiritus loco animae vegetabat, secondo in visione asserì un santo a un sacerdote che pregava per la conversione del potente signore. (94) A questa categoria di Visioni, oltre quelle già ricordate qua e là nelle note, sarebbero da aggiungersene altre ancora, cioè I: La visione di s. Anscario nella vita che ne ha lasciato s. Ramberto (Bolland. Febr. III) ove il santo è condotto da s. Pietro e s. Giovanni al purgatorio e al paradiso, che, secondo osserva l'Ozanam (p. 395) è descritto con forme interamente spirituali, come le dantesche. I, II, III. Le due Visioni raccontate da Vincenzo Bellovacense, l'una di un Monaco cisterciense (a. 1153) l'altra del fanciullo William (Specul., XXVII, 84-89; XXIV, 6-10), riferite anche dal Wright (p. 31) e dall' Ozanam (p. 402). A queste sono da aggiungersi altre tre, tolte dallo stesso autore, e citate dal Kopisch (Ueb. d. gottl. Kom., in appendice alla traduzione della D. C., Berlino, Muller, 1842, p. 468), l'una delle quali (IV) di un Giudeo spogliato dai ladri e abbandonato in lacci e senza cibi perchè si converta alla fede, a cui apparisce Maria che lo slega, e trattolo seco, gli fa vedere l'inferno riserbato ai suoi confratelli di religione, e il paradiso ove Cristo accoglie i suoi fedeli (Spec. VI, 112); la seconda (V) di un fanciullo ridonato a vita, che racconta le migliaia di dannati visti all'inferno (Spec. VI, 115); terza (VI) di un cavaliere che combattuto dal diavolo nel suo proposito di farsi monaco, è menato da s. Benedetto in paradiso, ove scorge Maria che umilmente lava i piedi ai santi, e Adamo elle attende il termine dei tempi, e nell'inferno il durissimo supplizio di Giuda (Spec. XXIX, 6-10). Ancora, due visioni che narra Matteo Paris, l'una (VII) del Monaco di Evesham (Hist. Angl., a. 1196) che vede tre luoghi dì punizione e tre di ricompensa, ed è menzionata anche dal Foscolo (Disc. sul Testo, p. 395); l'altra (VIII) di Thurcill (a. 1206), nella quale Adamo è descritto come in quella soprariferita dal Bellovacense (Ozanam, p. 403): in essa troviamo s. Paolo e il Diavolo che pesano le anime, s. Niccola a guardia del purgatorio, s. Michele a guardia del paradiso, e il Diavolo discorre familiarmente con s. Giuliano e s. Domnio che fan da guida al visionario, e vi è persino la descrizione di una specie di spettacolo teatrale di casaldiavolo, dove vengono in scena un poeta, un cavaliero, un avvocato costretto a inghiottire gli illeciti guadagni fatti in vita ec. (Wright, p. 41). IX. Alle molte tratte da Cesario e qua e là riferite brevemente nelle note, aggiungasi quella di Gozberto converso (XI, 12) che nei dolori di una malattia mortale è trasportato in cielo, e narratene le magnificenze, dopo poco spira e vi ritorna. X. La leggenda spagnuola di S. Amaro ricordata dal Denis, Monde enchant., p. 283, ove è descritto il paradiso terrenal e il celeste. XI. La descrizione del Paradiso in Anglo-Sassone, riferita dal Wright, p. 25, 186, ove si trova un Fons vitae che riappare anche in altre visioni. Qualche altro titolo di scritti di simil genere è riferito dal Du Meril, op. cit., p. 300. Ricordiamo anche le tre scritture greche stampate dall'Hase (Not. et Extr. IX, 141), ma delle quali solo una è probabilmente anteriore al XIV secolo. (95) III nel testo originale, ma è evidentemente un refuso. Poichè nel testo originale il capitolo III è "ripetuto" anche i successivi risultano sfasati di un numero. Si è quindi ripristinata la corretta numerazione progressiva [nota per l'edizione elettronica Manuzio]. (96) Gregorio di Tours (VIII, 5) racconta una visione del re Gontrano circa l'estinto fratello Chilperico, dallo storico rappresentato come acerrimo persecutore del clero (VI, 46). In essa si direbbero congiunte la vendetta e l'ira politica e sacerdotale. Gontrano racconta che prima dell'uccisione del fratello, gli parve vederlo condotto alla sua presenza da tre vescovi, cinto di catene. Due chiedevano per lui soltanto un castigo, l'altro vescovo un supplizio esemplare: e, infatti Chilperico venne gettato in un vaso d'acqua bollente, ove le sue membra si disfecero in breve. (97) Vedi, ad es., la Visione di un canonico e di un cappellano di Magdebourg contro il vescovo Udone, tratta dal Promptuar. Exempl. di Giov. Herolt, e riferita dal Delepierre, Vis. de Tond., p. XV. Aggiungi anche la Visione di Baronto anacoreta del VII sec. (Mabillon, Act. Sanct. s. III), che vede due vescovi, Dido e Volfrido, che in misere spoglie scontano nell'inferno la loro vanità e cupidigia. In moltissime leggende e visioni monastiche trovasi indizio di questa lotta fra l'umiltà cenobitica e l'orgoglio episcopale. Ricorderemo fra tante una Visione di. Raduino, monaco di Reims, nella quale si fa che Dio minacci i maggiori flagelli, se Burcardo venga dal re eletto vescovo di Chartres (Ampère, Hist. litt. de la Fr. av. le XII s. Paris, Hachette, III, 120). (98) Vedi nel Le Clerc, Disc. sur l'etat des lettres au XIV s. Paris, Levy, 1865, I, 110, 120, una visione favorevole ai francescani contro i domenicani. In una riferita da Cesario (VII, 59) un monaco cisterciense rapito in cielo si maraviglia di vederlo pieno di monaci d'ogni ordine, ma non del proprio. Allora la Regina del cielo, aperiens pallium suum, quod miree erat latitudinis, ínnumerabilem multitudinem monachorum, conversorum, sanctimonialium (un cod., trascritto forse da un novizio, aggiunge: noviciorum) illi ostendit, ed erano tutti cisterciensi. Altrove (XII, 53) narra dell'anima di un cisterciense che apparisce a due suoi confratelli, e dopo aver dato notizie di molti defunti, interrogato sui meriti dell'ordine de griseis monachis, risponde: praemium illorum maximum est, et lucent sicut sol in regno coelorum. (99) Dial. IV, 28. (100) Oper. II, 805; vedi Labitte, p. 114. (101) Frod. Hist. eccl. remens. III, 3, 18. L'ampère, op. cit., p. 118, fa osservare che Bernoldo trova fra i dannati anche il vescovo Ebbone, rivale e nemico d'Incmaro. (102) In labyrintheas infernorum poenas. La reminiscenza mitologica, osserva il Wright, p. 20, è evidente. (103) Alberic. Triumfont., Chron. a. 880; Vinc. Bellovacen., Spec., XXIV, 49: Les Croniq. de S. Denis, VII, 148; Vill. of Malmesbury, a. 1143; Lauben in Mem. Acad. Inscript.; XXXVI, 232; Grimm, Deutsch., Sag- trad. franc. Paris, Levavasseur, 1838, II, 176; Ampère, op. cit., p. 120. (104) Grimm, op. cit., II, 117; Labitte, p. 110. In altra visione, il re Dagoberto è roso da un serpe per punizione dei suoi sacrilegj: Vedi Bolland. Jan. IV, p. 177. (105) Lo stesso fatto si racconta dell'Imperatore Enrico II per un calice da lui donato ad una chiesa di s. Lorenzo, e che questo getta nel piatto della bilancia facendolo traboccare: ved. Grimm, op. cit., II, 208. Cfr. un'altra consimile leggenda sul re Rodolfo di Borgogna, Id. ib. 263. (106) Labitte, op. cit., p. 110-112. - Carlomagno è veduto nel purgatorio ove sconta la sua scostumatezza, in una visione dell'anno 824, quella del monaco Wettino, narrata dall'ab. Hetto: (Mabillon, Act. Sanct. IV, 1, 263-82). Il modo della punizione è tale che non lo riferiremo, bastandoci rimandare alle citazioni del Labitte, p. 112, dell'Ozanam, p. 394 e del Du Mèril., p. 299. Cfr. anche per consimile punizione, Cesario, Dial. III, 24. (107) Lecoy de la Marche, La chaire franç. au m. age. Paris, Dídier, 1868, p. 352 (108) Baluz, II, 109. (109) Malispini, C. XVIII, Villani, 1. IV, cap. 2. - Anche nella leggenda di Tundalo è fatta particolar menzione, e data quasi speciale residenza ai constructores ecclesiarum, e al vescovo Malachia constructor LIV congregacionum monachorum, canonicorum, sanctimonialium: ediz. Shade, § 22, 25. (110) Vedi nella Leggenda di S. Lorenzo di Jac. da Varagine (ediz. Graesse, p. 488) il fatto di Stefano romano, usurpatore di beni della Chiesa, e il severo giudicio dato in cielo sull'anima sua, modificato soltanto per intercessione di s. Progetto e di Maria. (111) Tabl. de la Litterat au. m. age, Leç. I. Questo racconto si trova anche nel Libro de los enxemplos, n.° CCCLXXXV (ediz. Rivadeneyra, Madrid, 1860) come tratto da la historia de los sanctos padres. (112) La voce popolare, già innanzi al racconto di Dante nel XIX dell'Inferno, aveva anticipata a Clemente V la pena che, morto, lo attendeva. Leggesi infatti nel Villani IX, 58: E dissesi che vivendo il detto Papa, essendo morto uno suo nepote Cardinale, cui elli molto amava, costrinse uno grande maestro di negromanzia, che sapesse che fosse dell'anima del suo nepote. Il detto maestro, fatta sua arte, uno cappellano del Papa molto sicuro fece portare dalle demonia allo inferno, e mostrogli visibilmente uno palazzo, dentrovi uno letto di fuoco ardente, nel quale era l'anima del detto suo nipote morto, dicendoli che per la simonia era così giudicato. E vidde nella visione fatto un altro palazzo all'incontro, il quale li fu detto si facea per Papa Clemente, e così rapportò il detto cappellano al Papa, il quale mai più non fu allegro, e poco vivette appresso; e morto lui e lasciatolo una notte in una chiesa con grande luminaria, s'accese il fuoco e arse la cassa ov'era il corpo, e 'l corpo suo dalla cintola in giuso. (113) A questa categoria possono aggiungersi: I, la Visione di Andrale (IX sec.), che vede Cristo chiamare al suo trono i vescovi del mondo, e dimandar loro perchè il suo retaggio è così manomesso: i vescovi ne dan colpa ai re, e Cristo risponde: chi son essi? io non li ho eletti, nè li conosco. Allora sono chiamati l'imperatore Luigi, Lotario e Carlo suoi figli, e il nipote Luigi re d'Italia, ordinando loro di servire la Chiesa se vogliono ottenere la conservazione dei loro reami (Ampère, op. cit., p. 119); II, la Visione di s. Raduino, in Frodoardo II, 145, nella quale la Vergine dà a s. Remigio e ai suoi successori il dritto di investire i re franchi della loro autorità (Id., id. 120); III, la Visione di un chierico che per arte di negromanzia vede il langravio di Turingia, Luigi di Ferro, nelle maggiori pene infernali, ed esso gli commette di dire al proprio figlio, per averne qualche sollievo, che renda subito ai monasteri i beni ch'egli ha loro rapiti (Cesario I, 34, e pel ricevimento di Luigi all'inferno, ved. lo stesso autore, XII, 2; cfr. con Grimm, op. cit. II, 45); IV, la Visione del milite Walter intorno alle pene di Guglielmo conte Giuliacense che sta nel più profondo inferno collo spirito dell'imperatore Masseuzio, dannati ambedue ad eguale fierissimo tormento. Aggiungansi le visioni raccontate da Ottone monaco di Ratisbona nel Liber visioaum (Pez, Thesaur. Anedoct. noviss. III); V, di una serva di Ausburgo che avverte un magistrato, a nome del padre dannato all'inferno, di restituire i beni male acquistati; VI, di un povero mendicante che vede all'inferno i consiglieri che impedirono all'imperatore Enrico di pacificarsi con Dio e cogli uomini; e l'altra, VII, sulla imperatrice Teofania, punita per aver introdotto dalla Grecia in Germania multa superflua et luxuriosa mulierum ornamenta, nonchè quella, VIII, di un monaco condotto a contemplare i supplizi dei purganti, la cui pena è di vedere i tormenti dei dannati; e l'ultima, XI, del cavalier Volsark che vede dal diavolo adunate in un castello tutte le ricchezze che gli uomini tolsero alle chiese (Ozanam, p. 391). Ricordero, infine, X, la Visione di Crescenzio monaco di Montecassino, che vede in un lago nimiae magnitudinis et ignei coloris, l'anima di Guarino cancelliere, propter perturbationem et tribulationem quam Casinensi monasterio excitavit (Cronich. Casin, IV, 102, in R. It. Script. IV, 560). (114) Radulph. Glaber, Hist. V, I. Il Du Meril. (Poes. popul. ant. au XII s., p. 299), riferisce un curioso ritmo nel quale si racconta la confutazione e la punizione di un falso visionario, fatta da Herriger, vescovo maguntino dal 912 al 26. Il visionario rappresentava l'inferno accinctum densis undique sylvis: e l'altro ridens respondit: Meum subulcum illuc ad pastum Volo cum macris mittere porcis. Poi, passando al paradiso, il vescovo lo rimprovera di raffigurare s. Giovanni come celeste pincerna, e s. Pietro quasi magister cocorum. Per ultimo e perentorio argomento, il vescovo illum jussit ad palum Loris ligari scopisque caedi. Vedine una antica traduzione inglese nel Wright, p. 183. Altre volte, la punizione ai temerari narratori di visioni, o vantatori di simili celesti grazie, apparisce di ugual natura ma di misteriosa origine, come a quel canonico di Colonia, il quale cum visionem cum circumstantibus recitasset, alapham sensibilem invisibiliter recepit (Cesar. VII, 55). (115) Cesar. XII, 23. (116) Dicts et Contes de Baudoin de Condé, publ. par A. Scheler, Bruxelles, Devaux, 1866, 1, p. 205. (117) Cfr. con la visione di un frate novizio, in Cesario, IV, 53. (118) Cfr. anche i versi: Or cheminai et si dormoie (Tant'era pien di sonno); Car nus chemin n'i ert batus (Che da nessun sentiero era segnato). (119) Hist. litter. de la. France, XXIII, 280. (120) Oeuvres complet. de Rutebeuf, publ. par Ach. Jubinal, Paris, Pannier. II, 24. (121) Pubbl. in nota al Rutebeuf del Jubinal, II. 226. Dev'essere, come già fu osservato nella Hist, litt. de la Fr., XXIII, 279, del trovero Raoul d'Houdain, dacchè nel Songe d'Enfer, del quale diremo più sotto, egli annunzia questo suo componimento sul paradiso, e in questo si fa dal Signore chiamare col suo proprio nome di Raoul (ib., p. 2.50). (122) Una burlesca descrizione delle gioie del Paradiso trovasi in una antica ballata tedesca, riferita in Albin, Ballad. et chants popul. de l'Allemagne, Paris, Gosseiin, 1841, p. 97, e, quindi nel Wright, p. 191. (123) Barbazan-Méon, Fabliaux et contes, Paris, Wzrée, 1805, III, p. 128 (124) La sainte Vierge douce et pure Prist les pans de sa vestèure Et va chantant trestout entor... Quant la Madelaine ot chantè... Vint Jhesu-Criz li douz rois, Si prist sa mère par les dois, La Madelaine d'autre part, A cui fist li douz regart Quant ses pechiez li pardona etc. (125) Et Saint Pierre, li bons portiers, Lour ouvri l'uis moult volentiers. (126) XVIII. 792. (127) In una Visione di una paralitica francese, recata da Cesario, VII, 20, essa vede su in cielo, nel giorno in che quaggiù si festeggia la purificazione di Maria, una gran processione nella quale i santi bini ac bini simul incedebant, et candelas ardentes in manibus gestabant; il Salvatore le appare indutus pontificalibus, mitram gestans in capite suo, cum baculo, cjrothecis et anulo et reliquis episcopalibus ornamentis: s. Stefano legge l'Epistolam de libro Malachiae profetae, e s. Giovanni l'Evangelium secundum Lucam. Dopo di che, Dominus ab offerentibus candelas suscepit. Sono, come ognun vede, le immagini della devozione claustrale trasportate inconsapevolmente, da una mente angusta, ma da un'anima piena di fede, alla descrizione del cielo. (128) Barbazan-Méon, op. cit., IV. 114. (129) Vuide Paradis, vilan faus. (130) Vilain, dist Diex, et ge l'otroi; Paradis as sis desresnié Que par pledier l'as gaaingné. Tu a esté a bone escole, Tu sex bien conter ta parole, Bien sez avant metre ton verbe. E il poemetto si conclude col verso: Miex val engien que ne fet force, che sembra esser quasi una formola storica, la quale, chiudendo l'età media, dominata dalla forza, inauguri il mondo moderno, governato dalla parola. Notisi poi che al modo stesso del villano, entrerà poi nel paradiso anche il protettore dei ben parlanti, s. Ivo, l'avvocato. Egli vi penetra di soppiatto mescolato ad altre anime buone, e s. Pietro, quando se ne accorge, gli ordina di uscirne. Ma Ivo che conosce bene le leggi della procedura, protesta che non ne sgombrerà se un usciere non gli notifichi regolarmente lo sfratto. Ma per quanto si cerchi, non si trovano uscieri in paradiso, perchè non ce n'è mai entrato alcuno; e così Ivo resta nella dimora dei santi. Vedi Fabre, Etud. histor, sur les clercs de la Bazoche, Paris, Potier, 1856, p. 135. (131) Pubbl. dal Jubinal in appendice ai Mystéres inédits du XV siècle. Paris. Techener. 1838, II, 384. (132) Quanto agli avvocati e alle loro lingue sarà curioso sapere che, secondo una narrazione di Cesario (XI, 46), ad un curiale morente non fu trovata lingua in bocca: et merito linguam perdidit moriens, qui illam saepe vendiderat vivens. Meglio sarebbe però che certi avvocati spoliticanti la perdessero prima di morire. (133) Imitazione abbreviata di questo favolello è Le Salut d'Enfer di anonimo autore, pubbl. dal Jubinal nei Jongleurs et Trouvères, Paris, Merklein, 1835, p. 43, che si diffonde quasi soltanto sui cibi infernali: Belzèbus fist appareiller I. usurier cuit en I. pot: Après faus monnoiers en rost, Il faus jugeurs à la carpie Et I. cras moine à la soucie; Estanchies fui d'avocas ecc. Quest'inferno è pieno di monaci bianchi e neri e di beghine, de clers, de moines et de templiers. Simili cibi sono anche nel pranzo dell'Anticristo nel poemetto: Le tournoiement d'Antecrist: ved. Wright, p, 111. (134) Aggiungasi a questo ciclo di favolelli anche quello De saint Pierre et du Jougleuor, pubbl. in Barbazan-Mèon, III, 282. Muore un giullare che aveva passato tutta la vita alla taverna e al giuoco: e, così nudo bruco, un diavolo lo porta all'inferno, mentre da altre parti giungono altri col carico di prestres et larrons, moines eveques et abez. Vedendo così misera preda, Belzebù ne sente pietà, ed offre al giullare l'ufficio di attizzar il fuoco sotto la gran caldaia, al che egli acconsente quar de chauffer ai grant mestier, promettendogli in premio un gran moine sor un, rotir À la sauce d'un usurier Ou à la sauce d'un hoilier. Un giorno che tutti i diavoli vanno pel mondo a far bottino d'anime, s. Pietro scende dal cielo, portando seco carte e denari, e propone al menestrello di mettersi a giuocare: questi che non possiede nulla, mette per sua posta le anime, e le perde tutte. Quando Belzebù torna e trova deserto l'inferno, giura di non voler più giullari in casa sua, fa bastonar il diavolo che ha portato l'infedele guardiano, e scaccia questo, che da s. Pietro è accolto in paradiso -. L'episodio delle anime guadagnate da s. Pietro al giuoco, trovasi, fra gli altri, anche nel racconto popolare catalano Lo Ferrer, in Maspons y Labròs, Quent: pop. catal. Barcelona, 1872, II, 19. (135) Come al buono tempo passato del tranquillo stato di Firenze s'usavano le compagnie e le brigate de' sollazzi per la città per fare allegrezza e festa, si rinnovarono e fecionsi in più pari della città a gara l'una contrada dell'altra, ciascuno chi meglio sapea e potea. Infra l'altre, come per antico aveano per costume quelli di Borgo San Friano. di fare più nuovi e diversi giuochi, si mandarono un bando per la terra, che chi volesse saper novelle dell'altro mondo, dovesse essere il dì di calende di maggio in sul ponte alla Carraia, e d'intorno all'Arno ec. Vill. VIII, 70. (136) Cito questo fatto, non già come il Mèrian, Mem. de l'Academ. de Berlin, 1781, e il Denina, Vicend. della Letterat. 1792, I, 226, perchè qui si abbia a trovare il germe della epopea dantesca, molto probabilmente già ideata nel 1303, ma perchè se ne tragga novella prova della popolarità del soggetto. (137) Cancellieri, Osservaz. sull'original. della D. C., p. 36-7; P. Costanzo, Lettera, p. 168; De Romanis, Conclus., p. 361; Labitte, op. cit. p. 135; Ozanam, op. cit., p. 365; Maury, op. cit., p. 150. (138) Vedi le Visioni della Vita Nuova, §§ 3, 23, 40, 43. (139) Conv., II, 13. (140) Questa parte delle discese al Tartaro e agli Elisi presso gli scrittori pagani, delle quali molte dovevan esser note a Dante, è ottimamente trattata dall'Ozanam, p. 439 e seg. Le relazioni fra Dante e un poema attribuito a Parmenide sono notate, dietro la scorta dello spagnuolo Vidal, nel III vol. del Jahrb. d. deutsch. Dante-Gesellsch., p. 478, dal Boehmer; ma parmi si possa dubitare che Dante ne avesse notizia. (141) L'Ubaldini, pubblicando il Tesoretto (1642), il Pelli nell'Elogio di Brunetto (Elog. di ill. toscan., 1766), il Corniani, Secol. della letterat., I, 66, e il Ginguenè, Hist. litt. ital., II, 8; sostennero che Dante togliesse dal maestro l'idea del poema, o almeno quella dello smarrimento nella selva. Ma le peregrinazioni allegoriche erano già comunissime nella letteratura d'oil, donde ne prese esempio il Latini, esperto conoscitore di quella: e il Tesoretto assomiglia assai più al Roman de la Rose, che non la Commedia al Tesoretto. (142) Le favole mi fur sempre nemiche, nell'invettiva contro Dante (Acerba, IV, 12). (143) Un esempio di siffatte descrizioni del Paradiso vedilo già in quell'antico ritmo, malamente attribuito a S. Agostino, ristampato dal Du Mèril, Poes. popul. ant. au XII s., p. 131. (144) Cfr. Le Vergier du Paradis, in Jubinal, Nouveau Recueil ec., II, 291. (145) Sul modo di rappresentare l'Inferno e il Paradiso nei monumenti dell'arte medievale, vedi Maury, op. cit., p. 84 e segg. (146) Testo del buon secolo, pubbl, da I. G. Isola, Genova, Schenone, 1865. (147) Gazata, Chron. in RR. Ital. Script. XVIII, 2. (148) Dondo quella donna tant'è çentil e granda Ke tuti li encorona d'una nobel girlanda La qual è plu aolente ke n'è mosca nè ambra Ne çijo nè altra fior nè rosa de campagna. E per onor ancora de l'alta soa persona Quella nobel pulcella ke en cel porta corona, Dester e palafreni tanto richi ge dona, Ke tal ne sia in terra per nexun dir se sona. Ke li destreri è russi, blanci è li palafreni, E corro plui ke cervi né ke venti' ultramarini, E li strevi e li selle, l'arçoni e an' li freni È d'or e de smeraldi splendenti, clari e fini etc. Mussafia, op. cit., p. 33. (149) Ved. fra gli altri i capitoli aggiunti alla Visio Tungdali dello Schade. E fra Giacomino: Or digemo... De la cità del celo per sempli e per figure.... Mo certe e veritevole si ne serà alquante L'altre, sì com disi, sera significançe. Id., p. 24. E l'autore della Visione dei gaudj dei santi: A noi sarebbe impossibile.... narrare a pieno le cose di vita eterna come sono, e però ce le bisogna comparare e assomigliare a queste cose visibili. (150) Notevole è questo passo di Pier Lombardo, Sent. 2, 4, 17: Tres enim generales de Paradiso sententiae sunt: una eorum quae corporaliter intelligi voluit eum: alia eorum quae spiritualiter: tertia eorum qui utroque modo Paradisum accipiunt. (151) Cosi, ad es., non vi ha certo imitazione, quando nel Libro di Adamo, sacro ai così detti Cristiani di S. Giovanni, le anime dell'Inferno chiamano a gran voce la seconda morte, e la seconda morte è sorda alle loro preghiere (Dict. des Apocr. I, 122), e la stessa frase troviamo nell'Inf. I, 117. (152) Dai versi del Purg. XVI, 40: Dio m'ha in sua grazia rinchiuso Tanto, ch'ei vuol ch'io veggia la sua corte Per modo tutto fuor del moderno uso, si potrebbe in Dante vedere giusto disdegno, anzichè ignoranza dei suoi predecessori. (153) Vedi enumerate le principali pitture e sculture ispirate dalla Divina Commedia nel Batines Bibl. Dantesca, Prato, 1847, 1, 316-49, e nel Ferrazzi, Manuale Dantesco, Bassano, 1865, II, 329. (154) Il Labitte, p.148, accusa di plagio rispetto a Dante, santa Francesca Romana, della quale trovansi le Visioni sull'Inferno e sul Purgatorio nei Bollandisti, Mart. II, 162. Veramente non si potrebbe dire che la santa abbia copiato la Divina Commedia. Essa riproduce le idee più volgari, e diremo anzi, più triviali, sull'Inferno: il suo Lucifero è quello del volgo, coronato il capo de cornibus cervinis che hanno multos cornicolos. Parrà più strano in una santa vergine il supplizio ch'ella infligge ai compagni di ser Brunetto e degli altri che Dante pone nel terzo girone del settimo cerchio infernale: noi lo taceremo, ma chi volesse saperne qualcosa, cerchi nei Bollandisti, e confronti anche col passo della Visione di s. Ildegarde, recato dal Delepierre nella Prefazione alla Leggenda di Tundalo, p. XII. Nell'Inferno di s. Francesca sono puniti in luoghi speciali i medici per uso di libri proibiti e cattivi medicamenti, i farmacisti propter medicinas injuste compositas, gli osti che ponebant aquam in vegete et ipsam vendebant pro vino, e i macellai per peso falso! - Le Visioni di s. Veronica che il Tommaseo, Parad. XXXII, raffronta colla Divina Commedia, sono del XV secolo. (155) Ved. l'Inferno di Armannino recato dal Tommaseo nell'Antologia del novembre 1831, e poi nel suo Commento al c. XXXIV dell'Inf. - I confronti fatti dal Bottari (Lett. a un Accad. della Cr.) fra il Purgatorio del Guerrin Meschino e il dantesco, chiariscono pienamente quel che il dotto uomo non seppe vedere: che, cioè, Andrea da Barberino, raffazzonando verso la fine del XIV o i primordj del XV secolo, il suo romanzo, sostituì le immagini dantesche a quelle della leggenda di s. Patrizio. Erronea è dunque l'opinione, primamente sostenuta dal Malatesta nel suo dialogo Il Rosso, e ripetuta dal Fontanini, che Dante sia stato plagiario del romanziere, quando la cosa procede appunto al rovescio. (156) Michelagnolo da Volterra, trombetta del Comune di Pisa nel 1488, in quel curioso catalogo dei libri da lui letti, che il Bandini ha stampato nel Catal. Laurenz. Suppl. III, 238, pone Dante Aldigieri fra i libri dall'anima da leggere di quaresima. E nelle costituzioni dell'Accademia senese dei Rozzi era stabilito che in quaresima si avesse a legger Dante: ved. Fabiani, Memor. sull'Accad. di Siena, nella Nuova Racc. del Calogera, III, 29. (157) Il poeta comincia ad avere il titolo di divino nella edizione dell'81 col commento del Landino, e il poema colla edizione del Dolce del 1555. EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "I precursori di Dante", Arnaldo Forni Editore, Ristampa anastatica dell'edizione del 1874, Sala Bolognese, 1989 |
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